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Lo studio

Socialismo e democrazia radicale, le lezioni (dimenticate) di Stefano Merli

Alfonso Berardinelli

Nel volume di Franco Toscani e Attilio Mangano, un viaggio culturale negli anni Sessanta e Settanta. Tra una nuova classe operaia e la formazione complicata e autoconflittuale di una nuova sinistra estranea sia al Pci che al Psi

Ricevo un piccolo libro dedicato allo storico e militante socialista Stefano Merli (1925-1994) che ho un po’ frequentato più di trent’anni fa quando insegnavamo entrambi a Venezia. Vorrei parlarne in questo articolo, ma non so come fare. Il libro è intitolato semplicemente “Stefano Merli”, autori Franco Toscani e Attilio Mangano (Centro di documentazione Pistoia Editrice, pp. 85, euro 10), e contiene, oltre ai saggi-ritratto di Toscani e Mangano, anche qualche pagina integrativa di Antonio Benci sul mestiere di storico e di Andrea Bellucci sul “proletariato invisibile” di ieri o anche di oggi, e sulla “drammatica inattualità” o potenziale attualità del lavoro storiografico di Merli. Il problema è che parlare di tutto questo vuol dire ricordare gli anni Sessanta e Settanta, la nuova classe operaia di allora e la formazione complicata e autoconflittuale di una nuova sinistra estranea e alternativa sia alla compattezza culturale togliattista del Pci che alla sperimentalità riformista, socialdemocratica del Psi. Al primo posto c’erano allora la trasformazione del capitalismo (termine oggi quasi mai usato) nel corso del “miracolo economico” italiano 1958-63, con l’emergere di una classe operaia di fabbrica quale nel nostro paese non c’era mai stata. La situazione richiedeva un modo o un altro di rileggere Marx, Engels e Lenin, cosa che entusiasmò e tormentò la nostra nuova sinistra per circa un ventennio. 

Appartengo alla generazione di ventenni che imparava dalla generazione dei quarantenni, quella di Stefano Merli, Raniero Panzieri, don Milani, e si parlava, per l’ultima volta, di Rivoluzione con la maiuscola. Non di rivoluzione informatica e digitale, ma politica, con protagonista la classe operaia e un suo partito che però non c’era e non era chiaro come potesse rinascere. Si immaginava in teoria che al centro e nel cuore della struttura sociale, in tutti i paesi di “capitalismo avanzato”, detto anche neocapitalismo o tardocapitalismo, ci fosse una classe nella cui identità ontologica e nel cui destino storico c’era la necessità di sabotare e rovesciare il Sistema. Tra il 1960 e il 1980 si ragionò e si agì in questa prospettiva di imminenza rivoluzionaria. Era più di mezzo secolo che si parlava ossessivamente di rivoluzioni in ogni attività umana, scientifica, filosofica, politica, artistica… Avanguardie di ogni tipo, leninismo, psicanalisi, fisica relativistica e quantistica, romanzo antirealistico e destrutturato, eccetera. Di tutto ciò oggi rimane la nuova fisica e il “futurismo” di chi fa pubblicità alla robotica. La vicenda culturale e politica di Stefano Merli riporta indietro, ma quando ci incontravamo a Venezia per “farci una gnoccata” (come diceva nel suo stile di figlio del mondo contadino e proletario) il Merli socialista rivoluzionario e libertario era diventato “craxiano”. La sua radicale, istintiva e morale antipatia per i comunisti, che si erano abituati a disprezzare metodicamente i socialisti, gli aveva fatto preferire polemicamente il partito di Craxi perché si chiamava socialista ed era anticomunista. Merli disse che di Craxi non gli importava niente, ma che si sentiva di appartenere a un Psu (Partito socialista unificato): “L’unico partito che non c’è e di cui sento la mancanza”. Il guaio era stato perciò la scissione del 1921 a Livorno, quando Bordiga, Gramsci, Terracini e Togliatti fondarono il Partito comunista d’Italia per “fare come in Russia” facendo a meno dei socialisti. Per Merli, come per Panzieri, la libertà culturale era assolutamente necessaria a un’onesta politica “di classe” che non si limitasse a teorizzare ma volesse studiare da vicino che cosa erano e che cosa volevano gli operai. Senza storia sociale e senza sociologia militante il neomarxismo del “ritorno a Marx” era una costruzione che procedeva per deduzioni a partire da princìpi generali non verificati empiricamente. Un costume intellettuale e politico, questo, che ha accomunato l’operaismo more geometrico dimostrato di Tronti, Negri e seguaci (secondo cui nella fabbrica c’era l’intera società, stato compreso) e la strategia burocratizzata del Pci che produceva politica senza studiare più i processi e i fatti sociali in atto.

Rimpiangendo il suo maestro e amico, scrive in conclusione Franco Toscani: “Il messaggio che ci viene dal percorso compiuto da Merli è un invito alla resistenza e alla libertà creativa, a un rinnovato tentativo di invenzione storica del presente e del futuro nella direzione del socialismo libertario, della democrazia radicale, tra forme di democrazia diretta e forme di democrazia delegata”. Oggi invece che di socialismo e di liberalsocialismo, si parla più cautamente di liberalismo di sinistra. Quanto poi a democrazia radicale, siamo ancora molto lontani.

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