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Il canto libero dei cinquanta. L'ultimo libro di Guia Soncini

Annalena Benini

“Chi ti ama disdice” e le altre verità dell’età vegliarda, non certo adulta. In "Questi sono i 50. La fine dell’età adulta", un libro sul tempo che andando avanti si contrae (come la mitomania), la felicità di essere meno stupidi di allora

Mentre leggevo questo libro, cantavo. Mentre ci ripensavo, cantavo. Mentre sottolineavo, cantavo. Adesso mentre scrivo, canto. Non a squarciagola, perché sono anche molto stonata, ma un po’ sottovoce e un po’ dentro la testa. Canto Guccini, ovviamente, e appena i miei figli si allontanano corro da Alexa e le dico: “Alexa, metti Guccini”, lei parte con dei Guccini a caso e io sono felice e faccio scommesse sulla vita intera: se Alexa inizia con Autogrill andrà tutto bene. Canto per nostalgia, certo, “l’unica invenzione di cui possano fregiarsi quelli della mia età, e l’unica eredità che lasceremo ai nostri pargoli (assieme al crollo del sistema pensionistico)”, scrive Guia Soncini nell’introduzione di Questi sono i 50. La fine dell’età adulta (Marsilio), ma adesso canto anche per qualcosa di meno lacrimevole. 

 
Canto perché mi chiedo: ma insomma come fate voi che non siete quelli di quei tempi là? Voi che vi mancano così tanti anni per arrivare a cinquanta che non potrete cogliere tutti i riferimenti, i film, le cazzate, il feticismo di noi vegliardi per il passato e per le pastiglie per il colesterolo (Soncini ha troppa influenza su di me da troppi anni, mi ha convinto di essere vegliarda e bisognosa di pastiglie, all’inizio provavo debolmente a resistere e a opporle una giovinezza percepita, ma adesso basta, mi arrendo: del resto il tempo è dalla sua parte). Voi che andate ancora a tutte le feste, pensando che saranno delle imperdibili strafeste, e tornate a casa recriminando e giurate che non uscirete mai più di casa (“meglio un buon libro”), almeno fino all’aperitivo di domani pomeriggio. 
“A cinquanta no, a cinquanta tutto è perdibile – ricordate? A cinquanta imprechi se devi uscire, mica al ritorno. Scusa, dice una tizia al telefono in una vignetta sul New Yorker, disdico solo all’ultimo minuto perché finora ho sperato che avresti disdetto tu. Sono politicamente contraria all’infantilismo delle magliettecollescritte indossate dagli adulti, me ne metterei una con su scritto ‘Chi ti ama disdice’”. 
Chi ti ama disdice, e quando non disdice sarà quella invece, dopo attenta selezione, l’imperdibile “strafesta” del Tempo delle mele: nel Tempo delle mele Vic (Sophie Marceau per chi non ricorda i nomi, cioè per chi è o troppo giovane o troppo vecchio) aveva tredici anni, io penso di averne sempre diciassette, ma per Guia Soncini ne ho cinquanta e sono vegliarda da molti anni, e adesso che non mi ribello più ho letto il suo libro con una furia mista a sollievo: c’è voluto del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti. Ma c’è voluto più talento per capire la regola: non si diventa mai adulti, solo vecchi
Soncini sostiene che la generazione precedente, quella dei nostri genitori, è passata invece attraverso l’età adulta, con il paletò e il “lei” alla suocera per sempre, e con quei meravigliosi picchi di indifferenza per noi ragazzi. Erano adulti, quelli di quando noi eravamo ragazzini, che non si interessavano alla nostra musica, che non volevano in nessun modo vestirsi come gli adolescenti che avevano in casa, che non volevano sentirsi giovani e non giocavano a essere figli (con alcune eccezioni che comunque non hanno modificato il conto dello psicoanalista), non si appropriavano dei nostri giovani riferimenti, non volevano sapere nulla delle nostre scoperte musicali, letterarie, cinematografiche e politiche. Eravamo noi ad ascoltare Lucio Battisti e Fabrizio De Andrè, eravamo noi a leggere il libro Cuore e Cime Tempestose. Eravamo noi ad assorbire loro, anche nel conflitto e anche con muri di filo spinato e disinteresse a dividerci: “Gli adulti erano adulti, ci importava pochissimo di loro, e venivamo sanamente ricambiati”.

 

C’è voluto del talento per riuscire a invecchiare senza diventare adulti. E più talento per capirlo: non si diventa mai adulti, solo vecchi

 

Gli adulti non ci avrebbero mai accompagnati a vedere Cercasi Susan disperatamente, “perché era un film per ragazzini e loro provavano per Madonna quel disinteresse che è andato perduto nell’epoca dei social, in cui le informazioni ci arrivavano tutte sul telefono, in tasca, e quindi c’illudono di riguardarci tutte, c’impediscono di distinguere, ci rendono smaniosi di sapere tutto e incapaci di creare gerarchie e sapere cosa scartare, terrorizzati come siamo di perderci il gusto che va di moda in quel momento lì”. 
Prima di Guia, cioè prima di avere letto Questi sono i 50, ero convinta che la coetanitudine generalizzata fosse una caratteristica di Roma, o comunque delle grandi città. Pensavo cioè che solo in provincia si ragionasse, oltre che per classi sociali, per anno di nascita. Quindi la sorella minore del mio compagno di classe del liceo era una persona invisibile in quanto mostruosamente più piccola di me (tre anni). E tutti i genitori indistintamente erano dei decrepiti arcigni rompiscatole, così come i professori e gli amici di famiglia. Nessuno a cui avrei mai rivolto la parola fuori dai doveri di buona educazione, fuori dalle balle che raccontavamo per coprirci a vicenda. A me non interessavano le opinioni degli adulti e dei bambini, agli adulti e ai bambini non importava niente di quella ragazzetta con i maglioni di otto taglie in più (anche di queste illusioni di magrezza scrive Guia Soncini). A Roma, invece, mi è sembrato improvvisamente che tutto fosse diviso solo per aree di interesse. Che ingenua. Se potevamo avere una conversazione, se potevamo addirittura lavorare insieme, se ci trovavamo negli stessi posti, se avevamo visto lo stesso film, allora eravamo coetanei anche alle cene, anche alle feste, anche in amore e in vacanza. Non capivo che tutto questo succedeva invece “per anzianità”. Crescevo, dunque invecchiavo, e intanto i veri adulti scoprivano il desiderio di sentirsi più giovani, si affannavano a non venire superati: a Roma è successo, verso i miei ventisette anni, che avessimo tutti la stessa età. Da allora le cose sono perfino peggiorate, visto che con la stessa intensità con la quale mi percepisco coetanea di qualunque centenario, cioè di qualunque persona del Novecento, spero tantissimo che le amiche di mia figlia mi dicano: ehi ciao (in effetti mi dicono: ehi ciao, mentre io alla loro età avrei detto: buongiorno signora) e mi raccontino i loro segreti. 

 

Il disinteresse degli adulti per le cose dei ragazzini che è andato perduto nell’epoca dei social, in cui tutte le informazioni c’illudono di riguardarci

 

Quindi, ha ragione Guia Soncini: non solo abbiamo inventato la nostalgia, ma abbiamo anche abolito l’età dello sviluppo. Abbiamo fatto un mucchio di cose, in effetti, da quando abbiamo visto per la prima volta Ritorno al futuro.
Soncini parla di Grande Indifferenziato, oltre che di crollo del metabolismo e di braccia senza bicipiti, addio culo, addio memoria, benvenuto momento in cui sei più vecchia della presidente del Consiglio. E benvenuta, anche, spaventosa certezza: il tempo andando avanti si contrae.
Ma non ci sono rimpianti, neanche un minuto di rimpianti, c’è anzi la grandiosa allegria di essersi lasciate alle spalle i terrificanti trent’anni, e pure i quaranta, e di avere imparato un po’ meglio a capire il mondo, e a dire: no grazie, non vengo. Magari anche senza: grazie. 
Devo di nuovo cantare, è più forte di me: “Ognuno vada dove vuole andare, ognuno invecchi come gli pare, ma non raccontare a me che cos’è la libertà”. Soncini non parla di libertà, perché semplicemente la esercita, nella vita e nei libri.

 

“Non do i giri di chiave, non controllo che il gas sia spento, non preparo la valigia la sera prima. Non chiudo gli sportelli”  

 

“Sono solo contenta di non avere avuto vent’anni in questi anni in cui parole come ‘empatia’ sono il modo in cui gli adulti si fingono coetanei dei non adulti; sono solo contenta di aver potuto imparare dagli stronzi senza che la società attorno a me mi dicesse che essere trattata come una porcellana era più importante che diventare un’adulta che sapeva fare delle cose; sono solo contenta di non essere stata cerimoniosamente indotta a credere che andasse benone l’orizzonte nel mezzo”.
In questo libro troverete talmente tante cose che penserete con terrore al tempo che si contrae e quindi non è detto che riusciremo a rileggere tutti i libri, a rivedere tutti i film, a ricordarci tutto, adesso che tra l’altro abbiamo perso la memoria. Ma nessuno dimentica (sono ottimista) che Virna Lisi in Sapore di mare diceva: “La verità è che invecchiare fa schifo”. Aveva quarantasette anni, era il 1983, scrive Soncini che è fissata con le date degli altri ma si dimentica il mese in cui è nata lei, Virna Lisi era bella in un modo folle e io non ho mai pensato, fin adesso, che non avesse ragione: invecchiare fa schifo. Poi ho letto Guia e mi è venuto da cantare, ho letto Guia e ho pensato: però io mi diverto. E questo divertimento nel libro è dovuto alla brillantezza, alla scrittura, al Novecento, alla tizia del piano di sotto che batte con l’ombrello sul soffitto per dire di non camminare coi tacchi dopo una certa ora, che poi è la tizia in cui ti sei trasformata mentre prima eri quella del piano di sopra che cammina coi tacchi a tutte le ore. Ma più di tutto, ora lo so, è dovuto all’allegria.

 

“Se penso a quella ch’eri, a quel che ero, che compassione ho per me e per te”.
Francesco Guccini, “Eskimo”

 

“A dir la verità io, alle estati e agli inverni utili, penso con una certa qual allegria; di giorno penso a tutto con una certa qual allegria. A ottantaquattro anni, Katharine Hepburn pubblicò un’autobiografia in cui, per descriversi in contrapposizione alla natura desolata di Spencer Tracy, diceva: ‘Io sono felice. Ho una natura felice. Mi piace la pioggia, mi piace il sole, il caldo, il freddo, le montagne, il mare, i fiori, i – be’, mi piace la vita, e sono stata molto fortunata: perché non dovrei essere felice? Non chiudo a chiave le porte. Non tengo il muso’. Katharine, sorella. Non faccio quasi nessuna delle cose che quarant’anni fa pensavo avrei fatto da grande. Non do i giri di chiave, non controllo che il gas sia spento, non preparo la valigia la sera prima. Non chiudo gli sportelli, il dentifricio, i cassetti, le scatole. Perdo i blocchi d’appunti in giro, e le chiavi, e il telefono, e gli occhiali, e un sacco di tempo a cercare cose, come i mariti delle barzellette. Non ho grandi preoccupazioni e sono felice: ma, dimmi, anche tu avevi il problema del dormiveglia?”. 

La questione del dormiveglia dovete leggervela, perché è fondamentale. Ma la questione della felicità dovremmo proprio impararla a memoria (quale memoria, di grazia?). Se non è troppo tardi, visto che questi sono i cinquanta.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.