il colloquio

Il sacro vuoto dell'anima. Intervista al filosofo Robert Redeker

Giulio Meotti

Un fantasma si aggira per la cultura occidentale: l’anima. “La sua abolizione ci ha lasciato orfani”, ci dice l'intellettuale francese che indaga su questa scomparsa e sulle sue conseguenze per la società occidentale

"C’è un vuoto, un buco nella nostra cultura. Qualcosa che c’è stato per migliaia di anni e non c’è più. Qualcosa che si dava per scontato. Qualcosa a cui ci eravamo abituati, un compagno fedele ed esigente della nostra vita. Che parola usare: una cosa, un’entità, un essere? Qualcosa che consideravamo parte di noi stessi, la parte più importante. La parte più intima. Il vero tesoro che siamo, era lei, non eravamo noi, non ero io! L’abbiamo persino confusa con la nostra intimità. Con la nostra identità. Questa cosa è sparita, è volata via come un uccello? Si è dissolta, questa cosa, come un cadavere che si decompone sotto terra, consegnato alla tenace voracità dei parassiti? E’ stata uccisa, questa cosa, come, nelle parole di Nietzsche, Dio è stato ucciso da noi? E’ stata imprigionata in qualche prigione dimenticata, per non far sentire mai più la sua voce? Che non torni mai più! Lo sentiamo: qualcosa o qualche essere che era come legato a noi ci è stato portato via. Qualcosa la cui parola stessa sta gradualmente svanendo. L’anima”.

Si apre così “L’abolition de l’âme”, il nuovo libro del filosofo francese Robert Redeker, uscito questa settimana per le Éditions du Cerf. Dov’è finita la parola “anima”? Perché ci è stata portata via? Come è evaporata dalla nostra lingua, dalla nostra cultura, dalla nostra vita quotidiana? Cosa significa la sua scomparsa? “Non c’è stata alcuna rivoluzione improvvisa. E’ stata una cancellazione lenta ma inesorabile”. Redeker scrive la storia di questa parola perduta. Ma anche di cosa significa la sua abolizione. “Le anime! Quasi arrossiamo a scrivere oggi questa parola sacra”, osserva Georges Bernanos in “La France contre les robots” (1947). La difficoltà dei nostri contemporanei a cogliere questo grande e perduto concetto della metafisica occidentale è l’oggetto del nuovo libro di Redeker.

L’anima è scomparsa dagli orizzonti del pensiero contemporaneo. Privato dell’anima, l’uomo moderno non è diventato un uomo normale, ma un uomo conformista. Questa è la constatazione di Redeker, che si interroga sul significato del progressivo oblio di una nozione essenziale per la riflessione filosofica. Senza preoccupazione né cura per l’anima, in un cielo svuotato dei suoi dèi e ridotto in mille pezzi, “lunaparkizzato”, “depneumatizzato”, “digitalizzato”, e abbandonato alle proprie dipendenze fisiche e ideologiche, gli uomini, senza gravità né leggerezza, non sono più in grado di prendere in mano la propria esistenza.

“Il mio libro nasce dallo stupore per una scomparsa di cui nessuno sembra essersi accorto” racconta Redeker al Foglio. “La parola ‘anima’, nel suo senso più forte, è scomparsa, sia dal linguaggio quotidiano che da quello filosofico. Rimane solo nella forma di una parola svuotata della sua sostanza, che designa solo un vago stato d’animo. Tuttavia, anima è rimasta per molto tempo una delle parole più importanti nella filosofia, più in generale nella civiltà e nella cultura. Alle origini della civiltà europea, Platone considerava la filosofia come ‘la cura dell’anima’. Fatto culturale, la sua cancellazione assume un significato storico: dice tutto del nostro tempo, della nostra società, dell’uomo contemporaneo. Il filosofo Rémi Brague ha scritto un libro straordinario intitolato ‘Ancres dans le ciel’. Riprendo il suo vocabolario, per vedere nell’anima l’architettura di queste ancore. L’epoca contemporanea sgancia queste ancore, alle quali l’umanità era sospesa, strappa l’uomo dalle sue vere radici, che crescono nel cielo. Costringe il cielo a cadere sulla sua testa e poi a frantumarsi in mille pezzi a terra”.
Redeker parte dall’idea di Simone Weil: “L’intuizione dell’anima è universale”. “Questa intuizione di sé come essere spirituale, che naviga dal vago al precisissimo, secondo le persone e le società, distingue l’uomo dagli altri animali. Questo tipo di senso di sé – senso spirituale di sé – è la vera differenza che assicura il confine tra uomo e bestia. Segnalando la sua bipolarità, è nell’uomo la traccia della sua appartenenza ad un mondo diverso dal solo mondo terrestre. La cura, la preoccupazione e la cura dell’anima sulla base della filosofia erano, secondo Jan Patocka, il segno distintivo della civiltà europea. Come nell’Angelus di Millet, anche il contadino più umile si preoccupava della salvezza della propria anima”. Da questa osservazione, diverse cose lo hanno spinto a scriverlo. “Volevo capire perché e come la parola anima, e la realtà a cui questa parola si riferisce, è stata estirpata dalla nostra cultura e dalla nostra vita quotidiana. Al culmine dell’angoscia e dell’abbandono, sotto la tortura o nella sofferenza, quando tutto sembra perduto, l’invincibile ci  appare, proclamando al suo carnefice: non puoi uccidermi, non puoi distruggermi. Puoi distruggere il mio corpo, ma non hai potere sulla mia anima. Quindi Giovanna d’Arco. Quindi Solzenicyn. Quindi San Blandino. Quindi i martiri. Si manifesta in questi eventi come un’entità di natura diversa da quella fisica: come una realtà che la morte non può raggiungere. In queste ore di pericolo, offre attraverso questo la rivelazione della sua immortalità. Tutto il mio libro cerca di rispondere a queste due domande: perché e come è stata estirpata l’anima? Così, ho capito che era necessario voltare pagina rispetto alla filosofia e alla cultura degli anni Settanta. Il regno di Foucault, Deleuze, Lyotard, Derrida, autori geniali e dannosi, talentuosi e perversi, seduttori che portano al suicidio un’intera civiltà, deve finire. No, decisamente, l’anima è troppo pericolosa! Troppo ribelle! Foucault e Althusser hanno imparato la lezione da Heidegger, certamente il più grande del XX secolo. Ma il loro antiumanesimo ricade nel materialismo, che è fertile e rigoglioso nel caso di Foucault, autore di grande levatura. La generazione filosofica esemplificata da Deleuze, Lyotard, per citare solo i più frizzanti, quelli di cui sarebbe sciocco negare il fascino inquietante, la bellezza diabolica, si basa sulla decostruzione che non produce altro che il nulla della civiltà. Mi è sembrato che fosse necessario chiudere la parentesi della seconda metà del XX secolo, per ripristinare le nozioni che questo periodo ha voluto eliminare (l’anima, l’essenza, la natura umana, Dio). Poi, volevo compiere un gesto simile a quello di Chateaubriand che, all’inizio del XIX secolo, dopo la violenta decristianizzazione organizzata dalla Rivoluzione francese, scrisse ‘Génie du christianisme’, un libro molto importante – un nuovo inizio. Mi si imponeva una triplice urgenza: metafisica, antropologica e politica. Perché la questione dell’anima è un crocevia dove queste tre dimensioni si incontrano”. 

In che modo la nostra iper-modernità ha distrutto il sacro? “Attraverso pratiche e argomenti. Cominciamo dalle pratiche. Innanzitutto, rendendo sacro tutto e qualsiasi cosa. Così sentiamo dire che le ferie pagate sono sacre, che un cantante di varietà è un idolo, che un oggetto tecnologico è ‘cult’! Paradossalmente, in Francia i principi della laicità sono sacri e questa stessa laicità funziona come una religione. La nostra epoca produce il sacro senza trascendenza. In altre parole, ciò che è stato distrutto non è tanto il sacro quanto la sua articolazione con il trascendente e il religioso. In breve, questo sacro ipermoderno ignora il cielo. L’ipermodernità distrugge la religione (il cristianesimo) per riportare i popoli occidentali a uno stadio pre-religioso (di cui è caratteristico un doppio feticismo, della natura e degli oggetti high-tech, un misto di feticismo e paganesimo)”. Continuiamo con le argomentazioni. “La nostra ipermodernità distrugge il sacro legato alla trascendenza, attraverso la promozione permanente dell’eclettismo (il ‘contemporaneamente’ che  Macron incarna politicamente), e il relativismo che ne consegue. Se tutto è accettabile, se tutte le opzioni e le opinioni possono stare fianco a fianco con uguale legittimità, non c’è più verità o sacralità. Niente più logos! O, più precisamente: ognuno sceglie il proprio sacro, lo fa per sé. Per Derrida, il ‘fallogocentrismo’ deve essere decostruito e combattuto. Possiamo vedere come la decostruzione porti a un soggettivismo capriccioso. Questo soggettivismo circola con l’eclettismo e il relativismo. Sulla base della decostruzione, la teoria francese, quest’epoca ha voluto promuovere il trio eclettismo-soggettivismo-relativismo in nome della tolleranza, con il lodevole obiettivo di pacificare la società. Ma è stato a costo della verità, sacrificata; Deleuze ha spiegato che il business della filosofia non è la verità, ma l’interessante. Il risultato è l’età del vuoto, il crollo della sostanza della società nel nulla, il governo dell’insignificanza, la vacuità antropologica. Questo disastro è stato ben anticipato da due pensatori così diversi come Cornelius Castoriadis e Jean Baudrillard, molto più lucidi dei filosofi chic della decostruzione. Alla fine, la tolleranza si è rivelata distruttiva. Per evitare un male (il totalitarismo e la guerra civile) ne è stato incoraggiato un altro (l’implosione della società, il vuoto e la proliferazione della violenza che il vuoto porta con sé). Abbiamo invertito il percorso di Hobbes considerando che lo Stato era la violenza e la sua assenza (che Hobbes chiamava ‘stato di natura’) la pace e la libertà. Fin dagli antichi greci, l’essenza è alla base del ‘logocentrismo’ (neologismo di Derrida) che caratterizza il modo di essere occidentale. Per Jean-François Lyotard, una delle grandi figure della teoria francese, il discorso dell’essenza e della verità è sempre da combattere, perché è quello del Maestro. Questo tradimento della filosofia trasformata in arte della creazione di concetti declassa la ricerca della verità. Il relativismo ne è la continuazione. A partire dalla filosofia, il discredito della verità investe l’intera società, rendendo impossibile la sua trasmissione nelle scuole, indebolendo all’estremo l’adesione alle istituzioni, mettendo tutti i discorsi sullo stesso piano, tanto quello di un premio Nobel quanto quello di un terrapiattista, minando ogni forma di autorità, creando le condizioni socio-culturali per l’accettazione del wokismo”. 

Redeker non usa mezzi termini per evocare l’uomo “dopo la morte dell’uomo” (secondo le parole di Foucault), concludendo: “Ci stiamo evolvendo nell’era degli zombie psichici. Senza dubbio i nostri contemporanei sono intrappolati nella colla dell’illusione del corpo più di qualsiasi altra civiltà. Senza dubbio credono nel corpo come i loro antenati credevano nell’anima. Con lo stesso ardore della fede. O meglio con più ardore, perché il loro progressismo e il loro scientismo li hanno persuasi che vivono in tempi di illusioni. La popolarità della liturgia dello sport attesta questa fede. L’importanza assunta dalle politiche sanitarie, la mutazione della politica in biopolitica, lo confermano”. E ricorda  questo brano di Jacques Derrida che, in “Points de suspension”, scrive: “La decostruzione non è, non dovrebbe essere solo un’analisi di discorsi, di enunciati filosofici o di concetti, ma deve attaccare le istituzioni, le strutture sociali e politiche”. “Tutto ciò che poteva contribuire alla distruzione di questi casi sembrava loro degno di incoraggiamento”.  “L’abolizione dell’anima” è il seguito de “L’Eclipse de la morte” dello stesso Redeker: l’uomo che non pensa più alla sua morte è lo stesso che ha dimenticato la sua anima.

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