facce dispari

Raiz: “Nello scudetto, Napoli si ritrova capitale”

Francesco Palmieri

Voce storica degli Almamegretta, nell'ultimo album ricanta Sergio Bruni, maestro della canzone classica napoletana. E' nel cast del film "Mixed by Erry" e della serie "Mare Fuori". Gennaro Della Volpe assorbe e restituisce suggestioni. Maradona, il Mediterraneo, la gioia e la malinconia di una città

Già voce storica degli Almamegretta, ha restituito quest’anno anche la voce a Sergio Bruni, maestro della canzone classica napoletana, ricantandolo senza tradirlo in un album e nel tour “Si ll’ammore è ’o ccuntrario d’’a morte”. Nel cast del film “Mixed by Erry”, in quello della serie tv “Mare Fuori”, autore e interprete di brani della colonna sonora esplosa negli ascolti di Spotify, Gennaro Della Volpe in arte Raiz è un napoletano dispari: non puoi ingabbiarlo in un genere, in un ruolo o nel folklore. È “poroso”, come diceva Walter Benjamin di Napoli: assorbe e restituisce suggestioni che includono anche l’appartenenza alla piccola ma antica comunità ebraica partenopea e le anticipate nostalgie che lievitarono in un’infanzia vissuta con la famiglia in provincia di Milano, dove il papà gli raccontava di via San Biagio dei Librai e della Sirena come di una cultura “lontana e mitizzata”, che lui presto avrebbe assaporato nel ritorno.

C’è anche questo nella gioia di Raiz per il terzo titolo del Napoli, che è calcio ma tanto di più: memoria degli scudetti precedenti, di Maradona, del Mediterraneo, di un’identità collettiva che conduce a ritroso fino al fondatore del club, l’illuminato imprenditore ebreo Giorgio Ascarelli, il cui volto è impresso su una maglietta azzurra che Raiz ha indossato per la festa.

   

Se solo calcio non è, cos’è questa gioia?

I napoletani s’identificano con la squadra come se fosse una specie di armata dei valori: non fa la guerra contro qualcuno ma è la rappresentanza di una capitale che torna a sentirsi tale perché questo le manca dall’unità d’Italia, che somigliò più a un’annessione, quando Napoli improvvisamente si trovò retrocessa a capoluogo e diventò “il sud”. Lo scudetto è un momento in cui si torna a una centralità perduta, e lo dico senza nostalgie borboniche che non avrebbero senso, perché sono felice di essere italiano e condividere una identità con milanesi, veneti, piemontesi. Però i successi del Napoli, per Napoli, sono anche questo: una guerra sublimata con cui restituire simbolico primato a una nazione che si riconosceva in una lingua, una cultura, uno stile di vita.

 

Perché quest’accresciuta fascinazione di Napoli nel mondo?

Napoli è il centro geometrico del Mediterraneo, ne assorbe le sintesi, non conosce la discriminazione ma l’assimilazione. Perciò seduce, perché in una fase storica di omologazione rappresenta un elemento di diversità che resiste anche con i difetti, e non voglio nasconderli. Ma è comunque una realtà che sfugge alle regole del “pensiero unico”, brutta espressione che però rende bene l’idea. La squadra di Spalletti conta giocatori di 17 nazionalità: è l’emblema calcistico di una città che non conosce “stranieri”. Persino l’identità ebraica si è stemperata a Napoli perché ingloba tutti. Non separa. Assorbe.

  

Quale curiosità spinge migliaia di turisti al murale di Maradona, come se fosse un monumento irrinunciabile?

Maradona è l’espressione di due grandi influssi sulla cultura napoletana. Il primo quello della Magna Grecia, con il culto degli eroi semidivinizzati grazie alle loro gesta; il secondo è quello cattolico, di cui la città è permeata fino al midollo col suo bisogno di santi e reliquie. Nel murale di Maradona si coagulano sentimenti e spiritualità stratificate che attirano con forza. Senza fare paragoni blasfemi, è una sensazione analoga a quella provata da chi visita il Muro Occidentale a Gerusalemme. Sono luoghi dove si concentrano potentissime energie.

 

Cosa ricorda dell’èra Maradona?

Il primo scudetto fu un momento di gioia simile a questa ma al contempo molto diversa, dall’acquisto rocambolesco di Diego alla gestione della squadra. Ero al San Paolo, allora si chiamava così, il giorno che si presentò palleggiando davanti al pubblico: a Napoli aveva tutto da dimostrare ma la città lo adottò subito, era l’underdog che combatte per una rivoluzione fatta dai poveri. Lui s’integrò subito venendo da Buenos Aires, che aveva tante cose in comune con Napoli sia nei vizi che nelle virtù. Qui lo scudetto era stato sempre sfiorato e con Maradona si realizzò l’impresa di vincerne due.

 

Come festeggiò?

Nell’87 io e i miei amici comprammo una Fiat 128 allo scasso, la dipingemmo di azzurro e tagliammo il tetto. Ci andammo in giro anche in venti per una settimana. Una follia, in un’epoca senza controllo sociale.

  

  

Calcio e musica?

A quel tempo no, il calcio era considerato un tema poco impegnato e perciò guardato quasi con sospetto. Solo negli anni Novanta, dall’Inghilterra, arrivò l’idea che appartenere a un club contemplasse anche una certa visione del mondo. Il calcio è, come la musica, una forma d’arte che connette le persone. Per me frequentare lo stadio è stato un modo di conoscere tantissima gente, come quando mi sono ritrovato all’estero nei Napoli Club. Ne ricordo uno in New Jersey, tutti americani ma dai cognomi si capiva perché andavano lì.

 

Napoli dietro la gioia si porta la malinconia. Una sindrome mediterranea?

È il Mediterraneo, sì, perché è popolato da gente che si è sempre spostata tanto e ha sviluppato nostalgia di casa. Mi disse un musicista israeliano di origine yemenita, ascoltatore di Sergio Bruni, che un artista mediterraneo crea solo quando sta male. Se invece è contento si diverte, va in giro con gli amici. Lui, quando voleva comporre, si provocava apposta momenti di malinconia. Come diceva Massimo Troisi: “Lasciatemi soffrire bene…”.

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