Jean-Honoré Fragonard, via Wikimedia Commons 

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La meraviglia di una letteratura la cui unica pretesa è quella di divertire

Marco Archetti

Un'ode postuma a Georges Courteline, scrittore umoristico francese, e alla sua opera "Tipi da scrivania". Il suo era un racconto scaturito dalla noia con al centro storie di nullafacenti

I militari, i giudici, i burocrati. Ode postuma – ma vivissima – a Georges Courteline, squisito e screanzato scrittore umoristico francese che, vissuto tra Otto e Novecento, senza altra pretesa che divertire, senza messaggi da trasmettere, senza moraline-catapulta, ha assestato i ceffoni più crudeli alle categorie maggiormente in vista del suo tempo. Come funzionario pubblico presso il ministero degli Affari religiosi, per quattordici anni – tutti di infaticabile nullafacenza – Courteline affilò lo sguardo e le lame fino a comporre le sei scene raccolte in questo Tipi da scrivania (Elliot, 154 pp., 16,50 euro), all’epoca uscite a puntate, e con grande successo, per L’Écho de Paris tra il 1891 e il 1892. Potere della noia, suprema freccia all’arco dello scrittore. E di un po’ di sentimento di rivalsa. Peccato che ormai la noia non esista più – la letteratura si estinguerà non tanto per mancanza di lettori, quanto per mancanza di annoiati; eppure andrebbe tutelata, è il motore dell’osservazione.

Si racconta che Walt Whitman non abbia mai riso una volta in vita sua – lo racconta Marcel Schwob nella bellissima prefazione sulla comicità. Allo stesso modo, il signor Lahrier, l’impiegato ministeriale protagonista della prima di questi sei quadretti, non era mai stato visto da alcuno affrettarsi, accelerare il passo, non parliamo – follia! – di arrivare puntuale al lavoro. Al contrario, il richiamo dell’ozio e l’avversione per il negozio nascevano in lui accoppiati spontaneamente, e gli bastava poco per sentirsi provocato, anche un arabesco di luce, uno svolazzo di piume, un frullo d’ali, un riflesso d’oro sulla tendina a fiorami della sua camera ed eccolo là, appena uscito eppure già vinto, già incapace di resistere, spaparanzato al tavolino esterno del bar Café Riche.

Il lettore lo conosce così, a pagina 2, mentre traccheggia e flirta coi bioccoli di polvere che danzano in una proiezione solare, col cappello leggermente abbassato sugli occhi e “invaso da una grande viltà di tutto l’essere” – ed ecco, con Lahrier, anche il grande scrittore che sa porgere il suo personaggio, metterlo in posa, inquadrarlo, e trovare la parola esatta. Il bisogno di lasciarsi vivere senza un pensiero: solo da questo è tentato Lahrier. Uno che vuol bagnarsi una volta ma a lungo nel fiume del nulla da fare, a mollo nell’inoperosità più gaia, disposto a fare una sola fatica, quella di ammirare tutti i parasoli che passano mentre “la bottiglietta dell’acquavite proietta sulla lamiera lucida del tavolino una macchia precisa e vibrante”. Ah, l’assenza dall’ufficio! Ah, la diserzione dalla tetraggine di rue de Vaneau e dalla Direzione generale dei lasciti e donazioni che pare incastrata in una crepa nera tra i palazzi circostanti e sembra “una zitellona senza seno, dalla faccia color fango e tutta screpolature… una desolazione di casa abbandonata o improvvisamente visitata dal colera”. 

Non certo dalla parvenza di una qualche attivismo: nel lugubre casermone tutti gareggiano in immobilità, competono in inerzia, rivaleggiano in mezzucci. Si svegliano di soprassalto non appena la loro porta si apre. E sono stupidi come il vecchio Soupe, boriosi e infami come Sainthomme, petulanti come Bourdon. Nullafacenti patentati con calligrafie magnifiche e illeggibili in un mondo in cui tutto è geroglifico, complicazione, impedimento. In cui regnano la seccatura, il malanimo, l’abietta malmostosità tra le filettature di ottone, il silenzio sinistro degli schedari e degli uffici canile, catacombe amministrative sempre troppo calde o troppo fredde – e poi sudari di polvere, sedie sventrate, cartelle rotte, sudiciume cacciato a scopate negli angoli perché irrancidisca inosservato, insomma, un inno ante litteram alla privatizzazione selvaggia, mentre là, nel tetro edificio, le tenebre avvolgono le procedure, gli uffici sono antri di labirinto e le porte danno sul mistero (niente di nobile, solo penombre che affacciano sul vuoto e “impiegati che incanutiscono tra le rovine”).

Mirabile Courteline – e crudele come piace a noi – quando racconta la sordida allegrezza al diffondersi della notizia di un alterco: “Un’improvvisa luce di gioia nella tetra giornata dell’ufficio”.

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