Recensione

La dispensa di Ernesto Ferrero. Il suo album di scrittori è la confettura del Novecento

Carmelo Caruso

Le angosce di Livio Garzanti, Giulio Einaudi che non sapeva guidare l'automobile, le continue fughe di Goffredo Parise. I ricordi di Ferrero in un libro dolce come la marmellata

Maneggiare denaro era un’offesa e guidare l’automobile un disonore. Giulio Einaudi e Italo Calvino erano pessimi guidatori ed Einaudi, il “Napoleone” della casa editrice, il fondatore, un grandissimo spilorcio. Riuscì a raggirarlo, con intelligenza, solo Mario Soldati (uno che “aveva sempre le mani bucate e due mutui da saldare”). Un giorno, a Torino, insieme a Nico Orengo, entrarono in un negozio d’abbigliamento. Einaudi provò una “morbida giacca di cachemire” e Soldati un “montone”. L’errore di Einaudi fu dire: “Ma le sta benissimo!”, l’abilità di Soldati rispondere: “Grazie, lo considero, un omaggio!”. A tirare fuori il libretto degli assegni fu Orengo. C’era pure chi, come Bobi Bazlen, avrebbe preferito passare l’intera vita, nella sua piccola casa di Roma, a via Margutta, semplicemente con un solo maglione, quello “norvegese e di colore marrone”. Solo quello e i suoi libri. Di inquieti la letteratura è piena. Eugenio Montale avrebbe desiderato fumare le sue Muratti e scomparire come scompare il fumo. Aveva scritto molte delle sue poesie su buste, biglietti del tram e pacchetti di sigarette. Sull’elenco telefonico, di Milano, figurava come “giornalista”. Gli amici non sapevano come chiamarlo: “Professore, maestro?”. Evitava in tutti i modi, lui che era il poeta, Nobel, di parlare di cose difficili. Quando qualcuno ci provava, solitamente in trattoria, Montale lo interrompeva e diceva: “Ma assaggi un po’ di queste cipolline e questi sottaceti”. Ernesto Ferrero li ha assaggiati tutti, anzi, li ha “saggiati” e infatti su tutti loro ha scritto ricordi, libri e pure necrologi. Ha cominciato nel 1963. Da allora barattoli di editori, scrittori, agenti letterari, sono finiti nella sua dispensa. Nel suo Album di Famiglia, “Maestri del Novecento ritratti dal vivo (Einaudi) li cataloga come le confetture.

 

Ci sono “i prediletti” (Calvino e Levi) i “capitribù” (Einaudi, Bollati, Garzanti, Enzo ed Elvira Sellerio ..) i “maghi e funamboli” (Munari e Ceronetti …) e ancora gli “inquieti” (Parise, Sciascia) o “i compagni di banco” (Cerati e Orengo). Alcuni hanno il sapore aspro, malmostoso, come possono essere le marmellate di prugne. Garzanti era ad esempio il terribile. Aveva avuto un’infanzia da Edipo. Il padre stava per diseredarlo. Lavorava in una stanzetta, a Milano, a metà tra via Senato e via della Spiga, e malediceva, in egual misura, amministratori, scrittori, sottosegretari di stato, poeti ed editori concorrenti. Ripeteva: “Se trovo qualcuno che dà fuoco alla casa editrice gli do dieci milioni”. Era naturalmente falso. Di Sciascia, a cui aveva commissionato di redigere la voce Pirandello per le sue Garzantine, riuscì perfino a dire: “Sarà anche un grande scrittore, ma come redattore è un cane”. Ferrero è come se fosse stato incaricato, da tutti loro, di coltivare, arare le loro vecchie manie, le angosce, i sorrisi. Il ricordo, i ricordi, in questo suo testo sono campagne e colline, montagne. A Dogliani, Franco Lucentini dava infatti lezioni di guida (inutilmente) a Giulio Einaudi (finivano sempre sui prati). Erich Linder, l’agente letterario, il papà di tutti gli scrittori, creature un po’ squinternate, grazie a un racconto sulla Valtellina (commissionato da una banca) riesce a fare ottenere a Soldati ben cento milioni di compenso. Pure nei rimorsi di Ferrero c’è la campagna. Rivela di essersi pentito di non aver fatto visita a Sciascia, in contrada Noce. Gli manca pure il sapore di “ficodindia”, quello di via Siracusa, a Palermo, sede della casa editrice Sellerio, perché fare libri a Palermo, notava Sciascia, è “come coltivare fichidindia a Milano”.

 

In quelle stanze, Sciascia si inventa la collana la “Memoria” e la frase del garbo europeo, della modestia divina. Ogni volta che proponeva un’illustrazione per un libro la anticipava con: “Vale, si capisce, come timido suggerimento”. Di Inge Feltrinelli, Ferrero, restituisce invece il sapore di fragola, la gioia, e pure le delusioni. Al contrario del marito Giangiacomo dovette capire che il comunismo si riduceva al banale aneddoto su Fidel Castro: “Teneva le galline in terrazzo e accanto il canestro per giocare a basket”. In alto, nello scaffale, inaccessibile, poggia ancora il barattolo Goffredo Parise, “sempre di corsa, in agitazione”. Giosetta Fioroni, che lo ha amato per venticinque anni, gli aveva perdonato pure il vizio della fuga a lui che era “prepotente”, “egoista”, “capriccioso”. La sua casa, sulle rive del Piave, l’aveva arredata con un tavolo da osteria. Si vantava, anche con Ferrero, di conoscere ristoranti. Era solo una rivincita del Parise bambino povero, un inquieto, sì, che cumulava donne, odori, malinconie. Era incosciente e temerario. Ha vissuto e se n’è andato in questo modo: “Giocando con la vita stupidissimamente”.

 

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio