La processione del santo con sullo sfondo il murale di Jorit che lo raffigura (LaPresse) 

da Napoli al mondo

Macché Unesco, il culto di san Gennaro appartiene già al mondo intero

Francesco Palmieri

Avanza la proposta di inserire il miracolo del sangue nella lista del patrimonio culturale immateriale. Ce n'è bisogno? Il precedente di Pulcinella, la natura civica della celebrazione e una fede che vince gli scettici

L’ultimo volto glielo ha dato Paolo Sorrentino, con le sembianze di Enzo Decaro nel film autobiografico E’ stata la mano di Dio, quando preleva con la sua Rolls-Royce d’epoca la procace Patrizia a una fermata d’autobus. L’ultimo volto di san Gennaro è questo, il suo abito uno smoking e il suo intento lei lo immagina subito: la seduzione. Lei è Luisa Ranieri, titolare nella vicenda e forse non a caso del nome della compatrona di Napoli: santa Patrizia vergine nipote di Costantino imperatore. Incontro più visionario che blasfemo tra i due, frutto dell’affettuoso tessuto dei sogni in cui compare anche il folletto domestico che popola da secoli le case dei napoletani: il monaciello. La stessa trama, una confidenza sentimentale che prevale sulla coerenza dottrinale, filò Matilde Serao quando scrisse di san Gennaro nei romanzi, o di monaciello e Sirene nelle Leggende napoletane ristampate periodicamente fino a oggi, testimoniando la convivenza di cristianesimo, paganesimo e superstizione nell’immaginario partenopeo. Colto e plebeo. Borghese o popolare.

Chiunque può rappresentare san Gennaro con le fattezze in cui lo sogna e filmarlo o dipingerlo per gli altri: il suo penultimo volto è il grande murale di Jorit, su un palazzo a pochi passi dal Duomo che ospita le reliquie del santo patrono. Lo street artist prese come modello un giovane operaio, mentre Decaro è un attempato elegante che chi conta qualche anno in più rammenterà, vestito da prete, a conclusione di uno sketch della Smorfia. Massimo Troisi e Lello Arena si divertivano a sfruculiare proprio san Gennaro o meglio i suoi devoti, rivali in accorata preghiera solo per ottenere i numeri del lotto.

Il volto di Enzo Decaro in “E’ stata la mano di Dio” e il murale di Jorit: chiunque può rappresentare il santo con le fattezze in cui lo sogna

Non è blasfema irriverenza, ma bonaria venerazione: sempre donna Matilde, nel Paese di Cuccagna, meraviglioso romanzo centrato proprio sulla perniciosa febbre del lotto, mise in scena l’omaggio interessato al santo dei patiti del gioco nella processione di maggio, quando il busto reliquiario del patrono percorre il tragitto fra il Duomo e Santa Chiara con le ampolle del suo sangue nell’auspicio che si sciolga un’altra volta ancora. Sappiamo benissimo che il Cicap, il Comitato degli sbugiardatori del paranormale, ha replicato in laboratorio il “miracolo” della liquefazione, come sappiamo che per l’ammissione al consesso civile è preferibile dire di non crederci. Perlomeno sorriderne. Ma quell’esperimento è ripetuto sin dal Settecento da scienziati e dilettanti a caccia di colonne in cronaca. E malgrado loro il culto di san Gennaro ha rafforzato i numeri: l’ultima stima è di 25 milioni di fedeli nel mondo, dalla Francia al Brasile a New York (ça va sans dire) ma anche in Australia. Persino nel Madagascar. Perché la diaspora napoletana è imponente; sono stati 275 mila gli utenti collegati alla diretta Facebook il 19 settembre, festa del santo e ricorrenza del prodigio più importante, perché in un anno ammontano a tre gli appuntamenti fissi con le auspicate liquefazioni: ci sono anche quelle del sabato che precede la prima domenica di maggio e del 16 dicembre, a ricordo di una eruzione vesuviana del 1631.

Il Comitato degli sbugiardatori del paranormale ha replicato in laboratorio il “miracolo”. Ma quell’esperimento si fa sin dal ’700

La tradizione del patrono è così strabordante che il 26 novembre scorso l’arcivescovo di Napoli, il sindaco, il governatore della Campania si sono riuniti per presentare assieme la candidatura del “culto e devozione di san Gennaro a Napoli e nel Mondo” alla famosa lista del patrimonio culturale immateriale dell’Unesco. Un’iniziativa promossa dall’ateneo Federico II, dalla diocesi, da diverse associazioni e dalla Deputazione della Real Cappella del Tesoro di san Gennaro, erede del cinquecentesco patto notarile che affidò ai rappresentanti della Città – non alla Curia – la custodia e l’amministrazione dei beni e delle reliquie del patrono. La natura civica del culto è stata difesa con veemenza e con successo in più occasioni fino all’ultimo, plateale scontro con le autorità ecclesiastiche che si consumò nella primavera del 2016. La battaglia montò per un decreto amministrativo del ministro dell’Interno Angelino Alfano, che disponeva con un’affrettata interpretazione giuridica l’ingresso di quattro membri diocesani nell’amministrazione della Cappella del Tesoro. Fu una battaglia vinta in punto di diritto ma sostenuta da una sollevazione di popolo. Chiamati all’appello anche attraverso i social, con gli hashtag #giùlemanidasangennaro e #nessunotocchigennaro, quattromila napoletani si radunarono sul sagrato del Duomo sventolando i fazzoletti bianchi. Citazione del gesto rituale che compie il delegato della Deputazione, vicino all’arcivescovo con le reliquie, per segnalare ai fedeli l’avvenuto prodigio del sangue.

Monsignor Domenico Battaglia con il sangue sciolto a settembre di quest’anno (LaPresse) 

San Gennaro, se la complessa pratica d’ammissione al riconoscimento dell’Unesco avrà successo, potrà ricevere la stessa bollinatura che vantano certi tipi di cornamuse e zufoli tribali, l’arte dei muretti a secco, il canto tenorile sardo, la cerca e cavatura del tartufo, i cavalli lipizzani. Da ultima, è notizia di questa settimana, la baguette francese. Che il suo culto abbia proprio bisogno dell’Unesco? Chissà. In più, il calendario attesta che giusto un anno fa di questi giorni un concittadino assai diverso ha preceduto il santo nella candidatura: Pulcinella, mentore tellurico di Napoli, patrono di tutt’altra giurisdizione, oscillante tra il demone sacro d’oltretomba e il burattino di trito folclore, tra le sottili interpretazioni del filosofo Giorgio Agamben e i lazzi dialettali di Antonio Petito.

Si dovrà attendere un paio di settimane, fino alla data liturgica di venerdì 16 dicembre, per conoscere l’umore del diretto interessato mediante l’eventuale prodigio: il solido grumo nel reliquiario potrebbe restare inerte o liquefarsi con uno scioglimento parziale o totale, prendendo gradazioni che vanno dal rosso papavero al rosso giallastro e con possibilità di ebullitio, ossia formando bolle che generano spuma. Perché i veri gennariani sanno che non esiste sic et simpliciter “il miracolo”. I massimi studiosi del fenomeno, Giovanni Battista Alfano e Antonio Amitrano (il primo sacerdote e naturalista, il secondo era medico), ne stilarono settant’anni orsono la classificazione in sei tipologie: 1) miracolo ottimo; 2) buono; 3) mediocre; 4) sfavorevole; 5) pessimo; 6) nullo (se rientra nelle ultime tre categorie è comunque definito “infausto”). Pessimo è per esempio uno scioglimento che avvenga dopo le tre ore d’attesa o se il sangue risulta vischioso ovvero rosso pallido; sfavorevole se s’indurisce subito dopo la liquefazione e così via, con una complessa casistica cui è possibile associare i destini contingenti della città e della Chiesa. Secondo una statistica che va dal 1661 al 1947, i miracoli infausti furono predittivi al 100 per cento di epidemie, rivoluzioni, invasioni dei turchi e siccità ma soltanto al 68 per cento delle eruzioni del Vesuvio, al 63 dei terremoti e delle morti di reali, al 45 delle morti di pontefici, con capacità di premonizione maggiore attribuita al prodigio di settembre (94 per cento) e a quello di dicembre (89 per cento), mentre la data di maggio si rivela poco attendibile (36 per cento). Coincidenze liquidabili con un sorriso per chi non crede; né per chi crede la fede poggia sulle cifre. Posizioni inconciliabili che vedono da un lato le repliche rudimentali del prodigio operate dal celebre alchimista Raimondo di Sangro principe di Sansevero, dal fisiologo milanese Giuseppe Albini nel 1890 con una mistura di cioccolata al latte, dall’ingegnere molisano Arnaldo Giaccio nel 1906 con sangue di vitello, dal chimico napoletano Pietro Punzo nel 1880 con ammoniaca, sapone di soda e tintura di curcuma (il suo stesso artificio lo convinse però della genuinità del miracolo). Dall’altro lato si registrano due indagini spettroscopiche: la prima fu compiuta dal sacerdote Gennaro Sperindeo e dal professor Raffaele Januario nel 1902, la seconda con strumentazione più avanzata fu eseguita nel 1988 dal professore torinese Pierluigi Baima Bollone. L’esito di entrambe risulterebbe a favore del santo. Baima Bollone rilevò durante lo scioglimento “una serie di spettri che corrispondono alla emoglobina e ai suoi prodotti di degradazione proprio come accadrebbe se nelle ampolline fosse stato davvero racchiuso sangue”.

Il cinquecentesco patto notarile che affidò ai rappresentanti della Città – non alla Curia – l’amministrazione dei beni e delle reliquie del patrono

La ricognizione delle presunte ossa del patrono, custodite in un’urna nel “succorpo” del Duomo, anche se non offre la possibilità di immaginarne il volto fornisce almeno qualche indicazione sulla sua struttura fisica. Età approssimativa fra i trenta e i trentacinque anni, altezza fra il metro e 65 e il metro e 68, senza malformazioni né lesioni da trauma ma sofferente forse di un infarto osseo o di parassitosi. Gli erano spuntati i denti del giudizio però aveva numerose carie. La traccia di una spighetta sui molari è la testimonianza di un ultimo pasto a base di vegetali, consumato nello stesso giorno del martirio: il 19 settembre del 305 dopo Cristo. I saggi sui campioni di polvere d’ossa stabilirono inoltre che il sangue del martire, protagonista del così discusso prodigio, apparteneva al gruppo A.

Dubbi e certezze sono leciti entrambi di fronte al mistero. Concluse Alessandro Dumas, che pure si confessava perplesso: “Io preferisco credere semplicemente al miracolo; e, per parte mia, dichiaro di credervi”. Luciano De Crescenzo ha fatto un paragone con la “bella cosa” con cui lo premiava una zia da bambino: “Se il sangue in quelle ampolle si scioglie subito, Napoli ha la sensazione che la liquefazione sia avvenuta perché la città si è comportata bene. Quel miracolo è la bella cosa che san Gennaro dà ai napoletani”. Una “bella cosa” che trae la suggestione emozionale dalla ripetizione, senza sbiadire in un inverosimile ricordo tramandato sui libri, ma rivissuta una generazione dopo l’altra come fosse sempre la prima volta. I fedeli prominenti (regnanti, papi, principi, duchesse) hanno ricambiato con molte “belle cose” di fattura terrena, ma così preziose che il Tesoro del santo, esposto in un Museo dedicato dal 2003, costituisce un patrimonio materiale di valore inestimabile malgrado l’aggettivo, consunto dall’abuso, ne renda flebile idea. La sola mitra d’argento del 1713 è tempestata di 3.328 diamanti, 198 smeraldi, 168 rubini; il pesantissimo collare d’oro massiccio conta 700 diamanti, 276 rubini e 92 smeraldi. E poi una profusione di calici, pissidi, coppe, croci, gioielli, ostensori, un ben di dio che un film di Dino Risi del ’66, Operazione San Gennaro, rese oggetto di un immenso bottino sacrilego subito restituito per lo scrupolo religioso del capobanda napoletano, Dudù/Nino Manfredi. La pellicola fu sul punto di ispirare le mire del potente boss della camorra di Forcella, Luigi Giuliano, che progettò di raggiungere il tesoro con un attacco dal sottosuolo.

Pulcinella è il mentore tellurico di Napoli, patrono d’altra giurisdizione, oscillante tra il demone  d’oltretomba e il burattino di trito folclore

Per fortuna non ne realizzò nulla.

Si realizzano invece, come miracoli cui possono credere tutti, vicende molto più poetiche ispirate a san Gennaro. La sorte artistica di Lello Esposito è una di queste e poiché tra Pulcinella e il patrono, ciascuno per la sua giurisdizione, corre un filo inesplicabile, lui ha modellato il busto bronzeo della maschera che fa da sfondo agli immancabili selfie dei turisti in vico Fico Purgatorio ad Arco, ma è anche autore dell’opera “Gli occhi di san Gennaro”, che ha peregrinato nei luoghi simbolici di Napoli prima di rientrare nello studio dello scultore: le Scuderie di Palazzo Sansevero dove il principe Raimondo, sperimentatore del simulato miracolo del sangue e mecenate della famosa Cappella, ospitò il suo laboratorio alchemico. Dentro questa città davvero tout se tient.

I medici sono scienziati, ma nelle prime settimane della pandemia di Covid, mentre ad aprile 2020 l’ospedale si riempiva di contagiati, il direttore del Cotugno chiese a Esposito di installare, dinanzi all’ingresso, “Gli occhi di san Gennaro” per confortare i malati. E il busto di bronzo, altezza 4 metri e 25 base compresa, peso più di due tonnellate, fu issato su un camion e si diresse scortato dalla polizia municipale là dove i devoti reclamavano nuovamente il protettore dalle pestilenze che i loro avi avevano invocato nei secoli. “Lungo il percorso la gente s’affacciava e s’illuminava vedendo passare san Gennaro. Era cominciato così anche per me, affacciandomi da una finestra di via Anticaglia, il decumano dove vivevo da bambino”, racconta Esposito. “Sotto di noi abitava un artigiano, don Vincenzo, che passava l’estate modellando piccoli san Gennaro di creta per la festa patronale del 19 settembre. Erano molto fragili perché non venivano cotti ma lasciati asciugare al sole di luglio e agosto, poi pitturati di rosso dorato con l’aggiunta di qualche brillantino. Guardavo incantato il suo lavoro e avrei voluto immergere le mani in quei colori. Oggi dico grazie a san Gennaro perché il miracolo desiderato è avvenuto: dipingo e plasmo la sua immagine con le mie mani e ho indicato la strada a quanti dopo me lo hanno raffigurato nei modi più diversi, non più solo nei piccoli manufatti che si vendevano alla festa per due lire. E a proposito, chiamatela pure coincidenza ma sono nato il 16 dicembre, data del terzo miracolo dell’anno”. Ma esiste, per chi modella entrambi, un rapporto tra il candidato Pulcinella e il candidato san Gennaro? “Napoli è composta di tanti tasselli, che come i pixel di una fotografia vanno visti tutti assieme per ricavarne l’immagine globale”.

Dubbi e certezze. Dumas si diceva perplesso, ma “io preferisco credere semplicemente al miracolo; e, per parte mia, dichiaro di credervi”

Un’altra vicenda nel nome del patrono è quella di Eddy Colonnese, alla guida delle Edizioni San Gennaro nate da un’intuizione condivisa con don Antonio Loffredo, parroco del Rione Sanità per più di un ventennio fino a pochi mesi fa e animatore di progetti sociali, tra cui la cooperativa che cura le visite alle Catacombe del patrono. Proprio al di sotto dell’ufficio di Colonnese c’è il luogo dove le spoglie del santo, martirizzato nei pressi della Solfatara di Pozzuoli, furono traslate dopo una prima sepoltura clandestina. E lì è stata scoperta la più antica effigie di Januarius, risalente al V secolo. “Ho un approccio laico con il santo e non mi piacciono gli aspetti folkloristici. Amo piuttosto la sua storia bella e tragica di giovane coraggioso che per la propria fede viene decapitato. Il suo culto ha già superato la prova di dominazioni, guerre, terremoti, epidemie” dice Colonnese. “Perciò metterci in fila all’Unesco aspirando a una bollinatura lo trovo superfluo, per lui come per Pulcinella o per il rito del caffè espresso. Almeno san Gennaro lassammolo sta’ quieto!”.

Simile è l’opinione di Maurizio Ponticello, autore del volume Un giorno a Napoli con San Gennaro: “La candidatura all’Unesco mi sembra un’inutile operazione di marketing. Non c’è bisogno di nuovi riconoscimenti immateriali per richiamare visitatori, quanto di gestire meglio il turismo che c’è con infrastrutture reali e servizi essenziali. Gli amministratori locali sono incapaci di regolare l’affluenza nel centro storico, dove il fenomeno dei b&b spesso abusivi ha creato un problema abitativo, mentre la calca natalizia incontrollata suscita seri rischi nella zona dei pastorai di San Gregorio Armeno. L’identità di Napoli si gioca sulle sue capacità materiali”.

Lo scrittore Maurizio Ponticello: “L’Unesco è marketing mentre gli amministratori locali non sanno come regolare l’affluenza nel centro storico”

“Mi domando a che serva il riconoscimento Unesco: san Gennaro è già conosciuto in tutto il mondo”, aggiunge Lucilla Parlato, giornalista che partecipò alla “rivolta dei fazzoletti bianchi” da cui trasse un documentario: “Sarebbe più utile che per san Gennaro si seguisse l’esempio di sant’Agata a Catania, la terza festa cattolica più importante al mondo che vede accorrere un milione di persone, con una partecipazione che purtroppo per il patrono di Napoli non si registra più. Forse la candidatura all’Unesco serve più ai sociologi che ne scrivono sui giornali, ma per la città non capisco i vantaggi. Tantomeno per il santo, che è già patrimonio mondiale dell’umanità poiché l’emigrazione napoletana ha toccato tutti i continenti”. 

San Gennaro non è permaloso con chi gli vuol bene. Concede confidenza ai devoti, si offre alla libera raffigurazione con generosità ed è abituato da secoli a sopportare come manifestazione d’affetto gli improperi delle “parenti”, ossia di quelle pie donne oggi in via d’estinzione che un tempo costituivano la prima linea dei devoti in Duomo rivendicando discendenza dalla famiglia Januaria, stesso sangue del santo del sangue. Erano loro che alla recitazione del trentottesimo Credo, esasperate dal ritardo della liquefazione, cominciavano a esortare il martire urlando gli appellativi più rudi: “Faccia verde! Faccia gialluta! Santo malamente! Vecchio rabbioso!”. Non si possono certificare all’Unesco certe mozioni misteriose degli affetti per il “Guappone della Santa Fede” né l’unicità di una venerazione che non s’affida al “c’era una volta”, ma a un accadimento prodigioso che fedeli non ancora nati rivivranno come lo vissero fedeli che non ci sono più; che difende come civico il più religioso dei riti; che unisce in peculiare devozione sofisticati intellettuali come Paolo Isotta e stirpi di lazzari che pretendono comprensione dal santo per le pessime azioni appena compiute. Il misterioso culto cattura chi se ne fa figlio anche sotto remote latitudini o chi da Napoli viene adottato, persino se professa un’altra religione. Come la cantante tunisina M’Barka Ben Taleb: “Io da buona musulmana dove c’è un credo dico ‘ben venga’, ma penso che il caso di san Gennaro sia unico: ci sono cattolici praticanti che non credono nel suo miracolo e non praticanti che ci credono. In ogni caso non si può pensare Napoli senza di lui perché nessuno è come lui. Lo stesso atteggiamento, nella sfera profana, è stato replicato con Maradona: nessun altro calciatore, anche se arrivasse il campione più geniale, prenderà mai il suo posto. Lui è lui”.

La giornalista Lucilla Parlato: “Il santo è già patrimonio mondiale dell’umanità poiché l’emigrazione napoletana ha toccato ogni continente”

Ma perché farselo dire dall’Unesco? Una convinzione ce l’ha lo storico Paolo Macry: “Napoli è una città singolare, sempre alla ricerca di riconoscimenti di cui potrebbe pure fare a meno. Il bisogno di ostentare certe caratteristiche fortemente identitarie tradisce, nel profondo, un’identità debole. Basti vedere come la città reagisce di fronte agli atteggiamenti critici, fossero quelli espressi dalla Serao e da Malaparte o siano quelli di Saviano. Le critiche non sono mai accettate, sono sempre state viste come un’offesa, suscitando una reazione che oscilla tra il vittimismo e il forte senso di sé. E’ il sintomo della fragilità di un’opinione pubblica che fa la voce roboante, ma poi finisce per regalare consenso a figure manipolatorie, al populismo di bassa lega dell’ex sindaco Luigi de Magistris, durato dieci anni, o alla retorica di un governatore regionale come Vincenzo De Luca”.

E san Gennaro? “Per lui come per Maradona”, secondo Macry, “il rischio è di assorbirlo nell’autocompiacimento, in una sfera ai limiti dell’eccezionalismo di cui tutt’al più godono i turisti, i quali trovano elementi di attrazione persino nell’inefficienza che tormenta la cittadinanza. I napoletani l’immaginetta di san Gennaro magari se la portano quando vanno a cercare lavoro altrove o quando vanno a studiare alla Bocconi. Sa chi candiderei a una lista Unesco? Il presidente della società di calcio, Aurelio de Laurentiis, che ha tenuto il bilancio in ordine e ha costruito una squadra efficiente. Lo dico da tifoso della Roma: Napoli dovrebbe essere governata come il Napoli. Certo adesso c’è il sindaco Manfredi, che rappresenta la soluzione tecnocratica. Staremo a vedere i risultati, ma fino a oggi non mi sembrano molto appariscenti”.

La cantante M’Barka Ben Taleb: “Io da buona musulmana dove c’è un credo dico ‘ben venga’. Non si può pensare Napoli senza di lui”

Non c’è sindaco tuttavia, non c’è governatore, conquistatore o sovrano che abbia mancato di rendere omaggio a san Gennaro. (Volle farlo entrando nella capitale delle Due Sicilie persino Giuseppe Garibaldi, benché massone. Ma i canonici gli sbarrarono il cancello della Cappella del Tesoro e lui si vendicò qualche giorno dopo, espellendo da Napoli il cardinale filoborbonico Sisto Riario Sforza).

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