Il labirinto dei miracoli

Francesco Palmieri

Misteri e leggende del rione Sanità, a Napoli, illuminato dal film di Martone. Storie di nostalgia, di santi, di boss

Come se non bastasse il terrore delle bombe da lassù, si aggiunsero certe paure di quaggiù: nell’ottobre del 1943 “misteriosi colpi provenienti dalle viscere della terra” inquietarono molti abitanti di Napoli e allarmarono le truppe alleate, che da poco occupavano la città. La voce popolare, riecheggiata dalla polizia italiana, non vagheggiò l’opera dei fantasmi, sebbene centinaia di migliaia o forse milioni di resti umani affollassero il sottosuolo tufaceo e vacuo del rione Sanità. Si propugnò un’ipotesi persino più inverosimile: che un gruppo scelto di SS dopo la cacciata dei tedeschi restasse annidato nelle catacombe di san Gennaro, “da dove in qualsiasi momento avrebbe potuto compiere una sortita a sorpresa”. Non giunse a risultati la caccia sotterranea, benché condotta con accanimento e sfidando il vago timore di profanare il sonno dei morti antichi. Gli angloamericani si arresero all’impenetrabilità dei labirinti di incerta mappatura e spensero per sempre le torce elettriche sul mistero, mentre congetturavano circa la sorte di eventuali tedeschi smarritisi nel buio totale. Il fatto è raccontato dall’ufficiale britannico Norman Lewis, che ne fu testimone diretto, nel diario memoriale Napoli ’44.

 

Soldati delle SS, cavalli al galoppo e camorristi di prima e di dopo sarebbero stati catturati dalla pancia del rione più festoso e più cupo di Napoli

 
Molto più tardi Ermanno Rea, nel romanzo postumo Nostalgia cui è ispirato il film omonimo di Mario Martone, sarebbe tornato a considerare la capienza vorace del sottosuolo della Sanità, che ben più del lago d’Averno funge da Ade partenopeo: “Le viscere della metropoli, tutt’altro che impenetrabili, presentano fenditure di accesso frequenti, soprattutto laddove il tufo s’inerpica alla ricerca del cielo sui fianchi della collina di Capodimonte”. E ricordò, fra le memorie attinte a giovanili cronache ma simili a fiabe ancestrali, che “una volta un cavallo al pascolo imboccò l’ingresso di una caverna e cominciò a trottare, anzi a galoppare, inseguito dal cocchiere che lo invocava per nome e lo invitava a desistere. Invano però. A voler credere all’aneddoto, che danno per vero, il proprietario non lo trovò più, a riprova dell’incommensurabilità di un ventre in grado di inghiottire un esercito, figurarsi un cavallo”.

 

“C’è nella narrativa di Rea un’etica della salvezza presa dal filosofo Aldo Masullo, prevalente sulla dimensione della cronaca di camorra”

  
Soldati delle SS, cavalli al galoppo irretiti da un arcano richiamo e camorristi della malavita di prima (la Bella Società Riformata) e di dopo sarebbero stati catturati, talvolta per non uscirne mai più, dalla pancia del rione più circoscritto e inafferrabile, più festoso e più cupo di Napoli. “La Sanità è piena di grotte, gallerie, anfratti, androni bui che si aprono su imprevedibili giardini, vie strette inaccessibili alle automobili, bassi fatti apposta per ingoiare fuggiaschi”, scrive Rea concludendo: “Se Napoli è un mondo a parte rispetto al resto del pianeta, la Sanità è un mondo a parte rispetto alla stessa Napoli”. Che si esplori fino in fondo sarà pure possibile, ma molto meno che s’illumini alla comprensione quest’ingente città sotto la città con “una storia lunga più di due millenni, testimoniata da ipogei, altari, sepolcri scolpiti, scale che scendono sottoterra come volessero raggiungere le viscere del pianeta”.

 

  
Urbe dei morti ma salubre in superficie (perciò il suo nome), la Sanità fu ribadita dalla storia nel duplice destino di deliziosa residenza e immane cimitero. Agli edifici che tuttora costituiscono il suo vanto barocco e délabré, come il Palazzo dello Spagnolo e Palazzo Sanfelice, si oppone (o fa da complemento) il cimitero delle Fontanelle, sterminato ossario che raduna i resti di chi soggiacque alle numerose epidemie di peste e colera, degli insepolti e dei miserrimi sepolti i quali s’assommarono ai morti delle catacombe circostanti. E’ ignoto il loro nome salvo che essi stessi lo rivelino nel sogno a chi ne cura il teschio, spolverandolo e confortandolo con fiori e monetine, preghiere e caramelle, coroncine del rosario, biglietti della metropolitana, requiem aeternam e pizzini in cui si confidano, con cui pregano o rimproverano il defunto adottato e adottante. Ogni cranio allineato nelle file sembra uguale agli altri ma non è così. Sostenne ciascuno la sua faccia irripetibile di probo manovale o di inesausto sfaccendato, di acclarato delinquente o santo non censito; fu forse un vecchio del Seicento o una ragazza ottocentesca; fu magari un avo ignoto che se non fosse esistito non ci saremmo stati noi. (Un impalpabile ius temporis, oltre al certificabile ius soli, ci affratella con gente sconosciuta).

 
Al cospetto di quei teschi si riuniva il “tribunale della camorra” per iniziare adepti o emettere sentenze, e in quell’ossario nascose l’arsenale del suo clan Giuseppe Misso ’o nasone, il boss della Sanità che dominò la malavita cittadina tra il ’99 e i primi anni Duemila dopo il declino dei Giuliano di Forcella. Lo scontro criminale è raccontato da Misso nel romanzo autobiografico I leoni di marmo, ristampato l’anno scorso, rievocando l’amicizia infantile col “re” forcellese Luigi e la successiva, sanguinaria rivalità. Nulla di comparabile ai guappi d’epoca meno spietata, che spesso declinavano con la mestizia naturale dei leoni anziani come Luigi Campoluongo, “sindaco” del rione Sanità, mobiliere con mostra espositiva nel Palazzo dello Spagnolo, il quale a differenza del personaggio eduardiano di cui fu ispiratore non morì per coltello ma di malattia. Casuale testimone Giuseppe Marotta, che un giorno vide Campoluongo comparire nella galleria Umberto con “tre o quattro cerimoniosi cortigiani” ma “ormai decrepito”: “Le sue mani ingrandite dalle magistrali percosse inflitte a una generazione di camorristi erano sovraccariche di gonfie vene, irte di peli bianchi e tremavano”.

 

Il metodo incruento e manageriale, visionario ma efficace del parroco Antonio Loffredo, per neutralizzare i “vampiri” del quartiere

 
Volendo ritmare i mutamenti sociali a tempo di cinema, è nel ’79 che la malavita vara su larga scala il meccanismo delle estorsioni: Napoli… la camorra sfida, la città risponde di Alfonso Brescia racconta di una rivolta armata dei commercianti esasperati con drammatico epilogo nell’ossario delle Fontanelle, dove il protagonista (Mario Merola) uccide il cattivo peggiore infiggendogli un crocifisso ligneo nell’addome. Il simbolismo supera l’intento forse soltanto splatter della sceneggiatura, perché l’estorsore è eliminato come il succhiasangue Dracula col metodo Van Helsing, e perché poi accadrà davvero, molti anni dopo, che un crocifisso neutralizzi i vampiri della Sanità. Con il metodo, stavolta incruento e manageriale, visionario ma efficace del parroco Antonio Loffredo, generatore di un ventaglio di attività gestite dalla Fondazione di Comunità san Gennaro, nata nel 2014 con il coinvolgimento degli enti no profit e dei giovani del quartiere, dove il sacerdote arrivò nel 2001. La creazione di un’economia circolare è cominciata proprio dal patrimonio artistico e dalle viscere della Sanità, con la valorizzazione turistica delle catacombe e il coordinamento delle associazioni territoriali. E’ don Loffredo che ha ispirato la figura del parroco Luigi Rega nel romanzo di Rea e nel film di Martone, è lui che ha recuperato e aperto al pubblico (non senza difficoltà) le catacombe di san Gennaro, affidate alla cooperativa La Paranza che già gestiva, dal 2006, quelle di san Gaudioso sotto la basilica di Santa Maria della Sanità. E’ questo il cuore del rione, la casa del patrono san Vincenzo Ferrer cosiddetto Monacone, il predicatore domenicano che non mise mai piede a Napoli ma che ha un culto di quartiere persino più sentito rispetto a san Gennaro. Con doppia festa: la prima il 5 aprile, la più sontuosa dalla vigilia della prima domenica di luglio all’alba del mercoledì seguente. (“Quanno è sta festa, Napule se scasa / e s’addenocchia nnanze ’o Munacone... / Guardate: ognuno ’o chiamma, ognuno ’o vasa / e mena solde e sciure ogne balcone…” recita una poesia di Pasquale Ruocco).

 
“I turisti percorreranno la Sanità per ritrovare gli itinerari del film di Martone dove già cercavano quelli tracciati da Rea in Nostalgia, che nacque da una costola del romanzo Napoli Ferrovia da cui lui espunse molte pagine dedicate alla Sanità”, osserva Laura Cannavacciuolo, docente di Letteratura italiana contemporanea a L’Orientale: “C’è nel libro, come sempre nella narrativa di Rea, un’etica della salvezza ricavata dalle riflessioni del filosofo Aldo Masullo, che si traduce in una spinta positiva del pensiero, prevalente sulla dimensione della cronaca di camorra e che quasi la soppianta. Dalla contiguità con la città dei morti e superando le dinamiche malavitose nascono le possibilità di riscatto”. Lontana dal mare, che giù tra le sue strade neppure si sospetta, la Sanità non ha prodotto “vagheggiamenti lirici” in letteratura ma fosco verismo cominciando dall’inventore del genere, Francesco Mastriani, il quale nel quartiere morì dopo un diuturno pellegrinaggio di casa in casa dettato da continue sfide con l’affitto (e che scrisse La iena delle Fontanelle). Non ha prodotto, il rione, versi d’idillio quanto d’aspro possesso: ci si sdilinquiva a Posillipo, persino sui Quartieri Spagnoli, ci si lasciava tristemente a Capodimonte ma “l’ammore ’e vascio Sanità” è scandito da “pàccare amare e rasulate ’nfaccia”, ossia schiaffoni e sfregi, come poetava Bovio con quel po’ di suo guappismo di maniera.

  

L’autoctona vitalità letteraria del quartiere oggi: le Edizioni San Gennaro, presìdi di lettura, corsi di formazione sui mestieri dell’editoria

   
Oggi l’autoctona vitalità letteraria del quartiere è testimoniata dalle Edizioni San Gennaro, fondate a fine 2018 sotto la direzione di Edgar Colonnese per volontà di don Loffredo. “Il primo libro di Chiara Nocchetti, Vico esclamativo, vendette senza pubblicità dodicimila copie, così capimmo che era il caso di insistere e che la Sanità doveva raccontarsi da sola, senza il condizionamento di editori lontani sugli autori per rappresentarla nel solito modo”, spiega Colonnese, il quale seguendo la nuova esperienza professionale si è anche trasferito a vivere dal centro storico al rione e ha animato una Casa dei Libri presso la chiesa del Buon Consiglio, da cui s’irradiano altri presìdi di lettura, corsi di formazione gratuita sui mestieri dell’editoria digitale e sulla scrittura. Sei sono le collane delle Edizioni San Gennaro, che a fine mese pubblicheranno un volume illustrato dedicato ai set di Nostalgia con le fotografie di Mario Spada e contributi di Mario Martone, Pierfrancesco Favino e Carlo Rea, figlio di Ermanno.

 

  
Luogo di delizie e nequizie, di vivi e morti in regime condominiale, lontana dal mare ma inondata per secoli dalle acque che precipitavano da Capodimonte flagellando il borgo dei Vergini, la Sanità è città nella città, ha il santo suo proprio (“più pragmatico di san Gennaro” scherza Colonnese), un suo principe, Totò, figlio di via Santa Maria Antesaecula, e una propensione alla comicità di taglio acuto però lepida di cui furono espressione lo scrittore Riccardo Pazzaglia, paroliere di Modugno, e il giornalista Luigi Necco, che rivestì di leggerezza una consistente cultura d’archeologo e viene ricordato più per i collegamenti di 90° minuto che per le ricerche sul tesoro di Troia. Sempre la Sanità, da quando Gioacchino Murat le fece ombra con un ponte per arrivare più presto da Palazzo Reale alla Reggia di Capodimonte, può dar luogo a due opposte prospettive: dal basso verso l’alto e viceversa. Da sotto puoi vedere a una cert’ora, notava Marotta, le ombre di chi attraversa il ponte radere i muri sottostanti, e valutare il malinconico andamento della strada che quasi si dispiace di salire verso nord. Invece su dal ponte la Sanità si svela tutta: dalla cupola del Monacone “si passa con gli occhi nelle terrazze, nei balconi, nei mezzanini, nei riusi e nei passaggi volanti del quartiere affastellato, dal disegno irriconoscibile e impossibile, fra le piante, le insegne, le vetrate, i minuscoli portoni, la densa medina silenziosa, la città indiana e inverosimile”, scrive Antonella Cilento.

   
Chi taglia via Foria per avviarsi verso piazza della Sanità, qualsiasi strada prenda, sente di avere valicato un invisibile confine che intacca qualche meccanismo d’orologio, per cui il passato pare più presente, la povertà dei negozi meno truccata dalle insegne, le mura delle case ancora più slabbrate. E’ una signora anziana che non s’è rifatta e indossa gli abiti di quando fu più giovane, magari avendo altro a cui pensare mentre cambiavano le mode.