Foto di Olycom (Umberto Eco) 

Sarebbe d'accordo anche Eco (forse)

Ogni opera d'arte è aperta a un'infinità di letture possibili. Ma anche no

Sergio Belardinelli

I classici hanno la straordinaria capacità di essere stati scritti in un epoca e di essere al contempo sempre contemporanei. Ma nessuna lettura si può estrapolare dal suo contesto e allo stesso momento non sarà mai possibile dedurne l'unica vera interpretazione

Ogni volta che ci capita di leggere un “classico” dell’antichità, chi più chi meno facciamo tutti la stessa esperienza: siamo stupefatti dalla distanza che ci separa da lui e nel contempo dalla sua contemporaneità. Una distanza/vicinanza che rende miracolosamente la nostra lettura una sorta di avventura tra due mondi: quello nel quale il testo è stato scritto e quello nel quale viene letto. A tal proposito, non ho dubbi che la comprensione di un “classico” sia saldamente ancorata alla tradizione all’interno della quale è stato scritto. Tuttavia questo non è sufficiente a garantire la piena comprensione del significato di quel testo.

 

Se, poniamo, l’Antigone di Sofocle è un “classico”, lo è proprio perché incarna qualcosa di universale che in ogni tempo, sia all’interno che al di fuori del contesto nel quale è stata scritta, la mette in condizione di dire qualcosa di nuovo e d’imprevedibile.

 

In altri termini, il significato di un testo non è “univoco”, né la sua eventuale comprensione è in primo luogo una questione di acribia filologica all’interno di una tradizione. Ma questo non significa nemmeno che si possa fare di un testo un semplice pretesto, un’opera aperta, capace di essere interpretata a piacimento, come se il suo significato fosse semplicemente arbitrario e quindi passibile di qualsiasi interpretazione. Il fatto che Antigone, come tutti i grandi “classici”, sia aperta a continue riletture e reinterpretazioni nel corso dei secoli non la estranea per questo dal preciso contesto storico-culturale nel quale è stata concepita, che pone inevitabilmente dei paletti alla sua comprensibilità e interpretazione. Su questo punto penso che perfino Umberto Eco sarebbe d’accordo, quando scrive che “qualsiasi opera d’arte, anche se non si consegna materialmente incompiuta, esige una risposta libera e inventiva, se non altro perché non può venire realmente compresa se l’interprete non la reinventa in un atto di congenialità con l’autore stesso”.

 

Libertà dunque, ma anche “congenialità” con l’autore, e quindi, inevitabilmente, volontà di comprenderne mondo interiore, intenzioni, stile, in una parola, tutto ciò che lo collega a una tradizione. Sarebbe insomma insensato leggere il mondo di Antigone alla luce del mondo destrutturato e relativistico nel quale viviamo oggi. Sofocle viveva in un altro mondo. Ma ciononostante la sua Antigone può parlare anche a noi abitanti del ventunesimo secolo. E può farlo sia perché il suo mondo, la sua lingua, per quanto lontana, può essere ancora imparata da ciascuno di noi, sia perché chiunque si metta a leggere quest’opera, anche il profano, può trarne giovamento.

 

Nell’uno e nell’altro caso, credo però che sia opportuno prendere alcune precauzioni: nel primo caso bisogna evitare la pretesa che, imparando bene la lingua di Sofocle e la cultura del suo tempo, si possa raggiungere l’unica vera interpretazione della sua opera, la totale trasparenza della sua lingua nella nostra; nel secondo caso bisogna evitare invece la pretesa che, a prescindere dalla lingua e dal contesto nei quali un’opera è stata scritta, se ne possano dare infinite interpretazioni, tutte ugualmente valide, quanti sono i suoi lettori in ogni tempo e in ogni luogo. 

 

A tal proposito ci sono autori, penso ad esempio a MacIntyre, che forse insistono troppo sul fatto che bisogna sempre cercare di cogliere il significato univoco di un’opera d’arte all’interno della precisa tradizione che l’ha generata, ma certamente gli autori che oggi vanno per la maggiore sono coloro che, un po’ come Umberto Eco, commettono forse l’errore opposto di pensare che l’opera d’arte sia sostanzialmente aperta a una infinità di letture possibili. Ogni testo finisce così per diventare un pretesto buono per qualsiasi interpretazione. Altro che avventura tra due mondi! Con le parole di Roland Barthes, l’unico limite all’ambiguità congenita a ogni opera è dato dalla situazione in cui si trova il lettore, il quale tuttavia “non ritrova” per questo l’opera, ma piuttosto “la compone”. Un universalismo astratto che rende traducibile e comprensibile qualsiasi opera, semplicemente perché conta soltanto il punto di vista del lettore, non quello dell’autore.

 

Un universalismo per il quale tutto è traducibile, ma in un modo che, per quanto riguarda, poniamo, le opere del passato o quelle scritte in contesti culturali diversi dal nostro, rischia di essere incomprensibile sia all’autore, sia al pubblico per il quale tali opere sono state scritte. 
Come vado dicendo da molti anni, prendere sul serio la comprensione e la traduzione di un qualsiasi testo significa prendere sul serio l’alterità, la quale non sarà mai alterità totale, irriducibile, ma neanche alterità totalmente assimilabile in linea di principio. Questo ovviamente non vuol dire che la trasformazione di un testo in un semplice pretesto non possa dare frutti straordinari. Ma la domanda è se in questo modo, insieme al senso dell’alterità, non vada perduta anche la possibilità che l’alterità insegni veramente qualcosa di per sé non direttamente accessibile nella nostra propria lingua. 

Di più su questi argomenti: