Giorgio de Chirico, via Olycom 

Un saggio

De Chirico, Kafka e la mortale razionalità totalitaria del Novecento

Alfonso Berardinelli

La vita perfetta raggiunta con la negazione della vita reale. Immobilità, assenza di figure viventi, geometria, simmetrie perfette: gli elementi che aboliscono la storia

E se malinconici e metafisici fossimo proprio noi, vitalissimi europei mediterranei, solari, razionali, realistici e inclini più alla ripetizione del sempre uguale che al cambiamento e al dinamismo progressivo? Non è forse metafisico, nella sua solarità, il sud italiano della Magna Grecia, per esempio la Sicilia e il Cilento di Velia o Elea, la città di Parmenide e di Zenone, filosofi dell’Essere che mai si muove e mai cambia? Non è metafisica e malinconica, per chi ci è nato, proprio Roma, detta non per caso “città eterna” o fuori del tempo e della storia per eccesso di storia? Metafisica e malinconica è anche l’illuministica Torino, con le sue geometrie un po’ esoteriche, cioè non del tutto spiegabili, e con il suo famoso Museo Egizio e quella speciale tranquillità che affascinò e fece impazzire Nietzsche, sognatore dell’originaria e imperitura Grecia?

 

La migliore risposta a questi interrogativi l’ho trovata in un notevole saggio dell’ungherese Làszlo Foldényi, docente di Estetica e Letteratura comparata a Budapest, saggio pubblicato con l’agghiacciante titolo “I luoghi della morte vivente. Kafka, de Chirico e gli altri” (La Vita Felice editore, pp. 110, euro 14, prefazione di Viktoria Radics). Un tale saggio, che connette e intreccia con coerente libertà associativa varie tematiche novecentesche sia estetiche che politiche, mi conferma anche in una mia piccola convinzione personale: il più importante pittore del secolo scorso non è l’esuberante Picasso ma il flemmatico de Chirico, che con la sua “pittura metafisica” ha letteralmente inventato e rappresentato l’habitat novecentesco, o meglio la sua verità occulta, come del resto ha fatto anche Kafka, lo scrittore che solo il Novecento poteva produrre e senza il quale l’assurda, mortale razionalità totalitaria non avrebbe avuto il suo più chiaroveggente interprete.

 

Ho usato l’aggettivo “chiaroveggente”: e in effetti è il vedere troppo chiaro e troppo al di là l’attitudine che sa scoprire sotto il dinamismo sociale e produttivo una spaventosa immobilità al di là della vita, l’orrore per esempio dell’architettura dittatoriale, monumentale, funebre, concentrazionaria, iper-razionalistica, in cui si espressero i regimi fascista, nazista e stalinista.
Ma parlare solo di Novecento non basta, perché i precedenti abbondano e la storia della malinconica razionalità metafisica è una storia lunga e varia, anche troppo. Foldényi parte da un quadro di Francesco di Giorgio Martini, “Veduta architettonica”, del 1490 circa, esposto nella Gemäldegalerie di Berlino. Un quadro nel quale immobilità, vuoto, assenza di figure viventi, umane e vegetali, è anche trionfo della geometria, della razionalità, delle perfette simmetrie. Dove tutto è perfettamente razionale, visibile e sotto controllo, sono impossibili il movimento, l’attività e la vita stessa: si è in un al di là, in un oltre che trasferisce fuori del tempo la fisicità e lo spazio.

 

Una tale razionalità abolisce la storia. I totalitarismi volevano esattamente questo: abolire la storia, neutralizzare la possibilità di cambiamento e superamento, controllare la vita sociale sempre e dovunque, immobilizzare la vita facendone una “morte vivente”, e infine eternizzare il proprio potere assoluto.
Da Platone alla “civitas dei” di S. Agostino, agli utopisti Tommaso Moro, Campanella e Francis Bacon, la vita perfetta viene raggiunta attraverso la negazione della vita reale. Si arriva alla ratio di de Sade, con il suo criminale carcere sessuale, e al “Panopticon” di Jeremy Bentham costruito in modo che nessuno potesse sottrarsi al controllo centralizzato.

 

Il progetto illuministico era il sogno di un’utopia organizzativa che rendesse impossibile l’errore e il male sociale? Ma le utopie contenevano in sé il veleno della razionalizzazione e del controllo totale dall’alto. È questo che ha reso omologhe la politica di Stalin e di Hitler. C’è qualcosa di malinconico e di metafisico nei metodi di questi due individui? Che cosa c’entrano con loro De Chirico e Kafka? Chi diagnostica la “morte vivente” ne è responsabile? Certo che no. È su questo punto certo non secondario che il saggio di Foldényi delude.