La recensione

La società senza dolore di Han

Luigi Azzariti-Fumaroli

Arriva in Italia il saggio che prende in esame l’“algofobia”, la paura del dolore fisico, che pervaderebbe il nostro quotidiano inducendo a coltivare un’«anestesia permanente»

Prima che, nel 2007, il romanzo di Peter Cameron, Someday This Pain Will Be Useful to You (portato sul grande schermo quattro anni dopo da Roberto Faenza) li riportasse in auge, i versi ovidiani “Perfer et obdura! dolor hic tibi proderit olim” echeggiavano quasi soltanto nella memoria di qualche liceale che, in cerca d’un laudano per le sue pene d’amore, se li ripeteva a mo’ di mantra, già pronto però a dimenticarli non appena se ne fosse data l’occasione. La quale non tardava ad arrivare; anzi, quasi sempre coincideva con i primi afflati esistenzialisti respirati, fors’anche un po’ per posa, all’università. Dove, prendendo a frequentare le opere d’un filosofo che già nel cognome sembrava contenere una voce di lamento, era facile imbattersi in riflessioni che, nel dolore, cercavano una inopinata «forza terapeutica».

 

Sarà dunque quel medesimo liceale, ormai cresciuto ed uso a lavorare, «con l’esattezza di una mente che non conosce le fumigazioni dei sensi», ogni grano di dolore che si fa suo, il “lettore ideale” delle considerazioni consegnate, nel climaterico 2020, da Byung-Chul Han al saggio Palliativgesellschaft. Schmerz heute, ora proposto da Einaudi in edizione italiana (La società senza dolore, tr. it. di S. Aglan-Buttazzi, Einaudi, Torino 2022, pp. 96, euro 13)

 

Han è un filosofo assai apprezzato da quanti amino quella che Carl Einstein definiva «l’immota sobrietà della monotonia costruttiva». In un tedesco ipercorretto, figlio forse d’un cauto bilinguismo, ed irrigidito dal perfetto controllo d’una gamma tematica e tonale ristretta, egli suole notomizzare la società contemporanea, per mostrarne le dissonanze. Così, dopo aver inteso mostrare nei suoi precedenti lavori che dietro i moderni dispositivi digitali si celano occhiute volontà di disciplinamento, ovvero che l’iperattivismo indotto dalla competizione non fa che innescare forze che giocano col possibile senza attuarlo, egli si pone ora a considerare l’“algofobia” che pervaderebbe il nostro quotidiano, inducendo a coltivare un’«anestesia permanente». Denunzia, questa, certo attestata da non pochi possibili esempi, non ultima la diffusa abitudine di imbarcarsi nei viaggi psichedelici offerti dalle sostanze lisergiche o di mentirsi altro da sé, in una “second life” priva di angoli e spigoli, conflitti e contraddizioni. E, soprattutto, di castighi.

I voluttuosi esicasmi contemporanei sembrano infatti rifuggire così tanto compulsivamente il negativo da non avvedersi che – come già ammoniva Ernest Jünger – «nell’ebbrezza, tanto nel suo effetto narcotizzante, quanto nel suo effetto eccitante, porzioni di tempo vengono anticipate, amministrate in modo diverso, prese in prestito; e questo prestito va restituito». La società palliativa si impone d’ignorare ogni fluire temporale ed ogni trasformazione; essa è come imprigionata in una stasi vischiosa, in un inferno dell’Uguale, che – afferma Han, sulla scorta di Nietzsche – rifugge il dolore: i suoi tempi lunghi, le sue astuzie sottili, le ferali prefigurazioni che gli sono connaturate.

 

L’energica assertività di Han, alla quale non resta del tutto estranea una certa prosopopea, si effonde in un saggismo che, a dispetto della lezione di Adorno, non riconosce la propria attualità nell’anacronismo. Il che sicuramente giova alla sua fama di «wunderkind» (ancorché abbia 63 anni!) «d’una rinverdita e finalmente leggibile filosofia tedesca», secondo quanto ha recentemente scritto un quotidiano d’Oltremanica. Ma proprio per il loro concedersi ad una perspicuità senza condizioni e per essere prive di quella distanza critica dal presente che meglio consente di osservarlo e di coglierne il rumore di fondo, le sue pagine non sembrano quasi mai sfidare il luogo comune, finendo così per ingrossare i fastelli di carta in cui la filosofia diventa bricolage.

 

Anche per questo le sue riflessioni sul dolore risultano non trattare mai e in nessun modo del dolore stesso, come a voler opporre un fermo rifiuto a tutto ciò che non sia frutto di un’algida astrazione categoriale. Quasi fosse vittima egli stesso di quella resistenza a “dire” il dolore che permeerebbe il nostro universo mentale. Per contrasto viene in mente la meravigliosa novella di Turgenev, La reliquia vivente, che esemplarmente dimostra come, per cogliere il senso ed il valore del dolore, sia necessario saper innanzitutto vedere che cosa esso fa nell’uomo.