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ai temi del muro

Antonietta Tartagni portò Havel in Italia quando qui s'idealizzava il socialismo reale

Ubaldo Casotto

In morte della professoressa, prima traduttrice del leader ceco. La storia de Il potere dei senza potere, il manifesto del dissenso nei paesi dell'Europa dell'Est sotto il comunismo

Antonietta Tartagni. Pochi lettori del Foglio la conoscono. E’ morta a Forlì. Aveva settantotto anni. E’ stata per decenni insegnante di latino e greco. Ogni persona è unica, Antonietta Tartagni è particolarmente unica perché è stata la prima traduttrice di Václav Havel in un paese occidentale. E’  successo nel 1979, quando il Muro di Berlino era ancora su e in Italia in molti idealizzavano il “socialismo reale”, nonostante la repressione violenta della rivolta d’Ungheria del 1956, nonostante i carri armati nelle strade cecoslovacche nel 1968 a stroncare la Primavera di Praga, nonostante l’espulsione del premio Nobel  Aleksandr Solgenitsin dalla Russia nel 1974, nonostante i Gulag.

 

Antonietta era redattrice di Cseo, il Centro studi Europa orientale fondato da un geniale e vulcanico prete di Forlì, don Francesco Ricci, che girava con i suoi ragazzi, tra questi Antonietta, i paesi d’oltrecortina (Jugoslavia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Polonia), animato da quella che definiva “la cultura dell’incontro”: incontravano, scrittori, poeti, filosofi, preti, operai, studenti, famiglie “cercando all’est quello che poteva aiutare anche l’ovest”, come disse Antonietta tre anni fa a un convegno a Forlì in occasione della mostra su “Il potere dei senza potere. Interrogatorio a distanza con Václav Havel”. Cseo pubblicava, prima e unica rivista in occidente per anni, le testimonianze di questi dissidenti fatte uscire di nascosto, e non senza rischi, dai loro paesi. Era il fenomeno del Samizdat.

 

In uno di questi viaggi don Ricci conobbe un sacerdote ceco che poi si rifugiò in Italia e che, nel 1979, gli consegnò un plico, giunto a Roma in una scatola di cioccolatini boemi, contenente cento sottilissime veline battute a macchina: era, grazie alla carta carbone, la quinta, forse la sesta copia di un dattiloscritto. L’autore, Václav Havel, un drammaturgo ceco, in quel momento era in carcere a Praga. Don Ricci decise di pubblicarlo subito: “E’ l’autodifesa che Havel non potrà pronunciare nel processo che lo attende”. Era Il potere dei senza potere, il manifesto del dissenso nei paesi comunisti dell’est Europa. Antonietta lo tradusse di notte – di giorno insegnava – appassionandosi e affezionandosi a quel verduraio praghese (il protagonista del libro) che, stanco di vivere nella menzogna, si ribella e non espone più tra patate e zucchine il cartello consegnatogli dal partito: “Proletari di tutto il mondo unitevi”. Un tentativo di vivere nella verità da cui partì la Rivoluzione di velluto che nel 1989, in modo assolutamente non violento, portò al rovesciamento del regime comunista cecoslovacco e all’elezione di Havel alla presidenza della Repubblica.

 

Quando nel 1984 un’altra redattrice di Cseo, Annalia Guglielmi, riuscì a portare ad Havel una copia dell’edizione italiana, incontrandolo clandestinamente nel suo appartamento di Praga – era appena stato scarcerato – il futuro presidente si stupì e disse che era la prima edizione in occidente. Anni dopo, inizio gennaio 1990, durante i festeggiamenti per la sua elezione, vide nella folla di piazza San Venceslao un giovane che agitava un libro tenendolo alto sopra la testa, era Luigi Amicone, all’epoca giornalista del Sabato e poi fondatore e direttore di Tempi, che per attirare l’attenzione di Havel usava “Il potere dei senza potere” che, quando era all’università, aveva acquistato e letto appena pubblicato, ne aveva ricavato manifesti poi affissi nel chiostro della Cattolica di Milano, e uno slogan con cui partecipò alle elezioni universitarie: “La prima politica è vivere”. Havel riconobbe la copertina e ricordò la ragazza che gli aveva portato quel libro sei anni prima: “Fatelo passare – disse alla sua guardia del corpo – questi sono amici”. Amicone ne ricavò un autografo e, mesi dopo, un’intervista. La prima di questi amici, è morta a Forlì Aveva imparato il ceco quando ancora non esistevano scuole per interpreti, per poter incontrare quelli come Havel.