Cos'è che distingue davvero l'analisi e lo sguardo di Alfonso Berardinelli?

Matteo Marchesini

La varietà imprendibile del mondo contro le idee fisse travestite da Verità. Un libro raccoglie gli articoli pubblicati nel corso degli anni dal critico della cultura

Anni fa un intelligentissimo critico della cultura, che come me stima molto Alfonso Berardinelli, ma che a differenza di me si è formato soprattutto sugli autori cari all’Adelphi di Calasso, mi ha detto più o meno: “Quando scrivo corsivi sui giornali berardinelleggio, ma quando compongo i miei libri non posso che calasseggiare”. La frase conteneva un implicito giudizio: Berardinelli serve alla polemica sulle mode culturali del giorno, Calasso invita a immergersi in una sapienza “eis aei”. Lì per lì non ho risposto quello che pensavo, perché il pensiero non mi si era ancora tradotto chiaramente in parole. Lo faccio qui, dicendo che io ribalterei quel giudizio. Malgrado le apparenze, è il venerato direttore dell’Adelphi il polemista tutto preso dalla cronaca, e Berardinelli il saggio o il sapiente. E’ lo stratega dell’editoria Calasso l’occidentale che vuole, fortissimamente vuole conquistare un’egemonia con le armi tipiche dell’ideologo, e Berardinelli l’orientale che vive in un altro presente – un presente liberato dalle scorie delle ideologie, dalla chimera del futuro, e quindi dalle velleità dei progetti di dominio. Malgrado nei suoi libri ricorra di continuo l’aggettivo “ominoso”, Calasso è stato un laicissimo predicatore. Teneva molto allo stile, eppure non ne aveva uno: la sua prosa era lo strumento dignitosamente sostenuto e neutro di un giornalista eruditissimo che squaderna davanti al lettore i Massimi Problemi della Civiltà. Viceversa, lo stile elegantemente epigrammatico e agile di Berardinelli, che con una mossa judo ritorce contro gli avversari le loro stesse armi, è il riflesso di una mente taoista.

Secondo Brancati, Moravia si avvicinava con gaiezza a ciò che voleva comprendere, ma poi ne traeva sempre un referto lugubre. In Berardinelli accade il contrario: anche la registrazione dei peggiori sintomi di degrado culturale ha nelle sue pagine il ritmo di un “allegro”. Il saggista impugna la penna indignato, pronto alla satira; ma la satira gli si traduce subito nell’umorismo tonificante di chi, avendo preso le giuste distanze dagli altri e da sé stesso, riflette sobriamente su che grottesco animale può diventare l’essere umano. 

Gli articoli berardinelliani, che mantengono la cadenza della conversazione, somigliano al gesto esatto che scatta quando si è abolito ogni sforzo della volontà. Nascono da un vuoto zen in cui distacco e concentrazione sono una cosa sola, e colpiscono il bersaglio perché non hanno scopi che vadano al di là della loro pura manifestazione. Del resto, il loro tema è appunto sempre questo: la rivelazione dei falsi scopi. Col che si è detto quanto c’è di paradossale e di unico in un libro come “Giornalismo culturale” (il Saggiatore, 976 pp., 32 euro), dove Berardinelli, con l’aiuto di Marianna Comitangelo e Giacomo Pontremoli, ha raccolto tutti i suoi pezzi scritti tra il 2013 e il 2020. 

In queste mille pagine l’eredità critica di Adorno, corretta da una buona dose di empirismo anglosassone, serve spesso ad abbattere gli idoli e a strappare la maschera a pensatori, psicanalisti o romanzieri. Ma qui non si trovano mai toni predicatori o censori. L’autore non ha posizioni da difendere. Il suo approccio è socratico, il suo motto resta “formulo un’ipotesi”. E di ipotesi in ipotesi, procedendo per brevi tocchi umoristici, Berardinelli scopre la realtà prosaica che sta sotto il contegno pomposo di chi crede di possedere la Verità. Agli interlocutori che riducono tutto a un’idea fissa (la Biopolitica, la Rivoluzione, il Progresso, il Grande Stile, la Mistica…), questo Socrate giornalista oppone la varietà screziata, mutevole e imprendibile del mondo. “Non sarà un po’ troppo?” chiede Berardinelli, con misura da moralista classico, davanti a ogni sospetto di gigantismo culturale. Il suo “Giornalismo” è un manuale che insegna a distinguere gli intellettuali dalle loro caricature mediatiche, a diffidare degli estremismi a costo zero, ma soprattutto a evitare le monomanie del pensiero. Non può dunque che essere rifiutato in blocco da chi su tali monomanie ha costruito una carriera: ad esempio dagli studiosi di letteratura che riconducono qualunque testo alla stessa Teoria, dai filosofi ipnotizzati dall’Essere, o dai teologi che credono si possa diventare specialisti di Dio. Non a caso quest’opera di igiene critica si è sviluppata in gran parte sul Foglio, eclettica rivista novecentesca travestita da quotidiano. E non a caso quest’opera l’ha compiuta un saggista che pur scrivendoci ogni settimana da quasi vent’anni, perfino sul Foglio ha voluto mantenere l’atteggiamento dell’ospite. La musa di Berardinelli è infatti un senso di radicale inappartenenza. Se la felicità di questo autore risulta così contagiosa, è perché le sue parole sembrano provenire da un luogo arioso in cui si è sciolti da ogni legame, in cui tutto è ancora possibile e nulla è pregiudicato. Leggendolo ci si ricorda quanto è importante l’esperienza diretta del singolo individuo, che nessuna adesione a un gruppo e nessuna scienza esoterica o essoterica può surrogare; articolo dopo articolo si comincia a immaginare che forse è davvero possibile scrollarsi di dosso i ricatti sociali, i gerghi libreschi, e quel desiderio di “essere qualcuno” che trasforma il lavoro intellettuale in una prigionia angosciosa.

Chi voglia capire meglio le origini e gli effetti della condizione berardinelliana può leggersi il pezzo alle pagine 585-588, vera chiave autobiografica della raccolta. L’occasione è un numero del Venerdì di Repubblica sulla borghesia, cucinato a partire dall’uscita di uno studio di Franco Moretti. Con Moretti ne discute Cacciari. Entrambi, nota l’autore, sono molto fieri di parlare di sé come borghesi, cosa che non avrebbero mai fatto in gioventù, quando tenevano invece a esibire un aspetto da “marxisti integrali”. Berardinelli segna qui la sua diversità: nato “in una famiglia operaia old fashion”, per tutta la vita non ha mai smesso di sentire che ha “con l’ordine sociale e con il potere economico e politico” un rapporto opposto a quello degli amici borghesi, rivoluzionari e no. “A me – dice – di fare parte della classe dirigente non è mai venuto in testa”. Infatti si è dimesso da tutto, il Socrate giornalista: per odio verso la classe dirigente, e perché entrare organicamente nelle sue fila gli sembrava equivalesse a tradire il mondo in cui è cresciuto. Questa scelta lo ha reso solo, ma libero. Berardinelli ha la gioia di vedere ogni mattina la realtà dalla prospettiva di chi non rappresenta altri che sé stesso – una prospettiva della quale in Italia, paese nemico dell’individualismo, si diffida subito. 

Descrivendo una società in cui il mito dell’intellettuale “legislatore” è ormai caduto o divenuto ridicolo, “Giornalismo culturale” ci consegna come fresca di giornata una verità antica: la critica è il contrario del potere.

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