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Qualcosa di più su Roberto Calasso, che si nascondeva nel sublime

Alfonso Berardinelli

In una foto compare bambino, a cinque anni, in maschera da principe indiano. Si direbbe che quella maschera l’abbia poi voluta indossare, come autore, nel corso di un’intera vita

Noi esseri umani siamo commoventi. Non riusciamo a concepire la nostra morte. Nonostante abiti stabilmente fra noi, ci risulta impensabile. Sembra che siano sempre gli estranei a morire. Quando nell’estate dell’anno scorso è scomparso Roberto Calasso, mi è sembrato un controsenso. Misurati con il metro della attuale durata della vita, i suoi ottant’anni mi sono sembrati un’età immatura per morire. Assurdamente mi sono chiesto: perché Calasso ha deciso di morire prima del tempo? Il tempo, i vari tempi storici e metastorici che nei suoi libri ha esplorato, erano così enormemente estesi (dalla fine della preistoria in poi) che lui stesso, essendo il loro autore, avrebbe dovuto vivere più a lungo, quasi enormemente a lungo, almeno fino a novant’anni, un’età a cui oggi arrivano molti che non avrebbero mai creduto di avere una vita così lunga.

 

Calasso in effetti era diventato un mito. Ci si vantava di conoscerlo, di essere pubblicati da lui, di averlo semplicemente incontrato. Con la sua vocazione mitologica e mitografica a frequentare tutto ciò che è superiore e ulteriore, faceva apparire allo stesso modo tutto ciò che toccava. Essere pubblicati da lui faceva entrare nell’Olimpo di ciò che vale e che dura, anche nei casi in cui le ragioni per crederlo non erano sostanziali, o si poteva anche ritenere che non ci fossero.

 

Già prima di avere compiuto quarant’anni, l’autorità e l’aureola di Calasso erano entrate a far parte di ciò che è indiscutibile. La sola obiezione che poteva sembrare accettabile era di tipo politico, perché in effetti, senza dubbio, la casa editrice Adelphi da lui diretta non poteva essere considerata “di sinistra” e neppure “democratica”, dato che pubblicava autori centrali nel pensiero conservatore, o di destra, o critici della sinistra. La Adelphi costruì e diffuse la convinzione che la vera e superiore intelligenza è di destra, facendo trascurare il fatto che nessuno, proprio nessuno detiene il monopolio della stupidità e gli stupidi, i furbi, gli impostori si trovano in tutte le categorie culturali e sociali: fra gli artisti, gli scienziati, i filosofi metafisici, i teologi, gli snob, gli esteti, gli aristocratici, i figli di nessuno, i rivoluzionari e i reazionari… Qualche pessimo filosofo Calasso lo ha pubblicato, e si riesce a stento a immaginare come quell’esigente e gran lettore che lui era abbia potuto passare ore e ore su certi libraccioni farciti di citazioni o costruiti su una sola idea ripetuta all’infinito, restando, lui, convinto di avere fra le mani filosofia della migliore qualità. Tutti sbagliano, tutti possiamo sbagliare. Ma se abbiamo accuratamente eretto il mito di noi stessi come pressoché infallibili, allora sbagliare ripetutamente in un campo proverbialmente superiore come la filosofia dei principi primi, è imperdonabile.

 

Ho scritto su Calasso nel corso dei decenni e sempre insistendo più sulle sue pretese di superiorità che sulle sue qualità indubbie. Come scrittore raramente mi ha convinto. Come editore, almeno negli ultimi tre o quattro decenni, non ha avuto rivali. Una volta, scherzando ma non troppo, nel corso di una discussione sull’editoria, dissi che se la sinistra avesse continuato a demolire e dimenticare sé stessa, la Adelphi avrebbe pubblicato anche le opere di Marx, come si pubblica ogni grande classico. Sono qui a rimettere in fila le mie elementari riflessioni su Calasso, dopo aver letto il piccolo libro fuori commercio L’estate la sentivo arrivare dal viale, che ho ricevuto in ritardo con gli auguri di Buon Natale e Felice Anno Nuovo. Si tratta di una lunga intervista o conversazione autobiografica di Calasso con Lila Azam Zanganeh, che uscì in inglese nel 2012, la cui breve introduzione si apre con queste parole: “Roberto Calasso è un’istituzione letteraria. Per quarant’anni ha diretto Adelphi, la più prestigiosa casa editrice italiana, e nel frattempo ha pubblicato dodici libri di cui è lui stesso autore, fra i quali Le nozze di Cadmo e Armonia, sul mito greco, che ha avuto uno straordinario successo in tutto il mondo. In un paese dove gli intellettuali amano lamentarsi, forse più che altrove, per la decadenza della cultura letteraria, Calasso rappresenta un ideale perduto: uno scrittore difficile la cui opera ruota intorno a temi esoterici”. E più in là, più in presa diretta: “Sebbene abbia fama di essere una persona scostante e di temibile intelligenza, è cordiale, affabile e anche divertente. Legge – rapidamente per lavoro, lentamente per proprio piacere – romanzi e saggi. Prende appunti dettagliati quasi su tutto (in qualsiasi momento può capitare di vederlo tirare fuori dalla giacca un taccuino, dove annota qualcosa), e la sua memoria prodigiosa, che non tralascia nulla, si può quasi percepire nei movimenti repentini dello sguardo”.

  
A quest’ultimo proposito, lo sguardo, purtroppo viene in mente una infelice frase di Pietro Citati che qualche decennio fa venne usata per pubblicizzare non so quale dei suoi libri: “Calasso ha lo sguardo totale, lo sguardo dell’aquila”.

 

Oltre a cose un po’ risapute, ho appreso da questa intervista che Calasso scriveva con la penna stilografica, poi dettava a una sua assistente; che ha collezionato migliaia di schede Bristol per appunti di lettura e riflessioni; che da giovane, quando viveva a Roma, andava al cinema anche due volte al giorno ed ebbe una vera passione per Marlon Brando perché “era come trovarsi davanti l’esemplare di una nuova specie” e vide perciò Fronte del porto almeno sette volte. Ebbe poi due ottime guide culturali, Bobi Bazlen (“era un grande maestro taoista”) e Mario Praz, con cui si laureò scrivendo una tesi sul grande saggista seicentesco Thomas Browne (prediletto anche da Borges) e la sua teoria dei geroglifici. Non so bene di che cosa si tratti, non ho letto Browne: ma l’idea di un linguaggio esoterico o “geroglifico” non poteva che attirare e influenzare Calasso, che è stato senza dubbio un “uomo di mondo” non smettendo mai, d’altra parte, di inseguire e sognare un altro mondo, che forse custodisce il segreto del nostro mondo, o forse, invece, è solo il suo aldilà originario e superiore. Solo alla fine Calasso si è deciso a dire qualcosa in più di sé stesso. Non lo aveva mai fatto prima. Si è nascosto nel sublime. C’è in questo piccolo libro-intervista una foto in cui Calasso compare bambino, a cinque anni, in maschera da principe indiano. Si direbbe che quella maschera l’abbia poi voluta indossare, come autore, nel corso di un’intera vita. Nel bambino che siamo stati c’è il geroglifico della nostra verità.

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