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Il ritorno di Joe R. Lansdale, un po' anchilosato come la star dei western, ma ancora irresistibile

Marco Archetti

Leggere il recentissimo "Moon Lake" assomiglia a un tributo, d'affetto e di riconoscenza, a un vecchio e caro amico. Uno con cui abbiamo macinato chilometri di carta e di avventure indimenticabili, uno che ci ha portato in casa gli uragani, che ha reso il Texas un posto che potevamo sognare, e i drive-in una ragione personale di nostalgia

"I cristiani non amano Gesù, ma John Wayne". Così garantiva Joe R. Lansdale in “Elefante a sorpresa”, ultima storia degli arcinoti “Hap & Leonard” uscita per Einaudi un paio di anni fa. Ecco, leggere Lansdale – continuare a farlo anche con questo suo recentissimo “Moon Lake” (Einaudi, pp. 347, euro 18,50) – assomiglia sempre più a un tributo, d’affetto e di riconoscenza, a un vecchio e caro amico. Un amico con cui abbiamo macinato chilometri di carta e di avventure indimenticabili. Uno che, lo sappiamo, non è più quello di un tempo, le cui ginocchia scricchiolano, che tiene meno l’alcol, che ha il fiato più corto, la fanfaronata meno gagliarda e il ritmo inesorabilmente calante, per non parlare di certe sue similitudini di splendida volgarità, che suonano ormai un po’ manierate. Si ha, diciamo, la netta sensazione di avere a che fare con uno che, anno dopo anno, birra dopo birra, ci sta raccontando sempre la stessa storia, facendo girare i personaggi, dentro uno e fuori l’altro, in uno schietto e perfino onesto riciclo da trovarobato d’ingegno che però spesso trascende nel turnover di archetipi e stilizzazioni: niente di nuovo, molto di risaputo, non tutto finemente scritto. Ma come smettere?

Come si può pensare di piantare in asso il cantastorie che ha fatto scomparire certi pomeriggi di noia e alcune nostre serate, altrimenti inutilizzabili, dentro quel suo viluppo irresistibile, brillantemente cafone e supremamente poetico, di dialoghi a valanga, lampi comici e atrocità avventurosissime? Stiamo pur sempre parlando di uno che ci ha portato in casa gli uragani. Di uno che ha reso il Texas un posto che potevamo sognare – il Texas! – e i drive-in una ragione personale di nostalgia anche se non eravamo nemmeno nati quando proliferavano (non perdetevi il memorabile trattatello lansdaliano che li racconta, in “Maneggiare con cura”). Uno che ci ha imbottito delle sue paludi e di adolescenze come viaggi avventurosi alla ricerca del mondo e mai come viaggi interiori alla ricerca di se stessi – no, Lansdale non lo fa, non l’ha mai fatto, zero romanticherie intimiste, per questo lo si ama anche se non si amano le epopee dei ragazzini. Come si può mollare uno che ha scritto romanzi che sono stati la pura gioia della bevuta, bottiglia in verticale e noi giù, a scolarci senza fiato queste bande di fuorilegge sulla strada polverosa per l’Arkansas, questi cieli di sabbia, queste stagioni selvagge, questi pistoleri dalla pelle nera, questi tempi freddi e oscuri di orsi che ballano il mambo? Come John Wayne nella seconda parte della carriera, di cui si raccontava la difficoltà di montare a cavallo (ma sempre John Wayne restava), anche Joe R. Lansdale resta sempre Joe R. Lansdale, perfino un poco anchilosato come appare ultimamente. Anche quando ci trascina a brutte spinte nelle sue zone letterarie meno riuscite, traiettorie lungo le quali, come John Wayne al posto di Gesù, ci porta in direzione contraria e sbagliata, verso pagine un po’ così, a infangarci, a bucar gomme, del tutto fuori strada rispetto alle fiammanti route 66 della bella scrittura.

Questo suo “Moon Lake”, saga in cinque parti, è la storia di Daniel Russel, eroe quattordicenne che nel 1968 si sottrae al tentativo del padre di ucciderlo trascinandolo con sé nel fondo di un lago a bordo di una Buick. Daniel si ritroverà a casa della zia materna e, dieci anni dopo, da capo: la macchina del padre verrà issata dai fondi paludosi e, sorpresa, si ritroverà anche il cadavere della madre, in una valigia nel bagagliaio – ma è davvero sua madre?

Lansdale non ha più lo scatto di una volta, certo. Ma non appena lo si pensa, di colpo la pagina si accende e torna il grande narratore, ed ecco la scrittura che si beve. Ecco – per andare nello specifico – il tremore sospeso, quel tremore lansdaliano dell’aria, quando Daniel esplora i dintorni del lago. E tra i resti di segherie e lapidi rovesciate, ecco il mazzo di pagine che ci basta: il motivo per cui leggere Joe R. Lansdale ha ancora un senso.

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