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L'irragionevole ma serissimo amore per Joe R. Lansdale

Marco Archetti

Ragioni per leggere le sue implausibili storie e il salutare regresso all’infanzia che i suoi libri ci garantiscono da anni

Ragioni – non tutte sufficienti, non tutte eleganti, non tutte profonde – per cui amiamo irragionevolmente Joe R. Lansdale, le sue implausibili storie e il salutare regresso all’infanzia che la loro lettura ci garantisce da anni.

 

Ragione uno: l’intimismo. C’è sempre un cacumine spirituale nei suoi romanzi, una cuspide romantica, un vertice emotivo che viene raggiunto grazie al crepuscolarismo di affermazioni come (cit.) “proprio così, baby. Stai con me e scorreggerai nella seta”.

 

Ragione due: la velata allusività. Perché il macabro e il grottesco lansdaliano amoreggiano senza sosta e generano mostri di sinistro e presago umorismo quali (cit.) “conoscevo Leonard, e sapevo che non aveva archiviato il fatto che gli avevano dato del negro. Negli ultimi tempi sembrava un po’ più calmo del solito. In quel periodo sembrava più propenso ad azzoppare che a uccidere. Ma poteva essere una fase passeggera”.

 

Ragione tre: la sintesi. Perché nell’occhio del ciclone narrativo e della sua tempestosa verve gergale, nel bel mezzo di certi gagliardi botta e risposta di surreale grossolanità sempre propedeutica a una rimbombante scazzottata da fumetto, Lansdale se ne esce con autorevoli definizioni tipo (cit.) “segregazionista è solo un altro modo per dire razzista. L’unica differenza è che la parola più lunga delle due indossa un cappello e una cravatta”, oppure con condensate e inattese enunciazioni di ordine teologico quali (cit.) “io sono una metodista, cioè una battista che balla”.

 

Ragione quattro: la mise en scène. Perché i sordidi locali in cui Joe ambienta certe scene di pranzi vengono descritti con raccapricciante minuzia sinestetica e guarniti da immancabili balenii Tripadvisor del genere (cit.) “se volevi mangiare sano, era difficile pensare a un posto più di merda del Coffee Spoon. Persino l’insalata era fritta”.

 

Ragione cinque: il mondo sub specie lansdaliana. Che significa i buoni da una parte, i cattivi dall’altra, e Hap & Leonard in mezzo, a menare e a dirimere. Poche le sfumature e pochi i capricci di trama, giacché di quasi tutti i romanzi di Lansdale (compresi quelli con protagonisti i due investigatori, sembrerà paradossale) non si può certo dire che siano pieni di suspense o che che tengano il lettore col fiato sospeso grazie all’intreccio. Anzi, una volta per tutte: i romanzi di Joe non tengono mai col fiato davvero sospeso. I romanzi di Joe hanno pagine antigravitazionali, così lievi che si girano da sole. E sono affascinanti nell’ambientazione, crepitanti nei dialoghi, surreali nelle soluzioni non meno che nella stilizzazione dei personaggi, ma il fiato, più che sospenderlo, te lo increspano: frequenti risatine, fulminei sogghigni e sornioni borbottii di divertita approvazione. Il che – tanto per essere chiari – a noi lansdaliani piace moltissimo.

 

Ma ora (a noi lansdaliani piace meno) due serie ragioni, spiegate controvoglia a causa del grande affetto, della somma familiarità, dell’appagante tepore da eterno ritorno dell’identico, per cui “Il sorriso di Jackrabbit”, l’undicesima avventura di Hap & Leonard, ve la consigliamo ovviamente lo stesso (del resto contiene la frase più epica di sempre, è l’incipit del capitolo 43) ma, a un’analisi più puntuale, tocca ammetterlo: le riserve fioccano. La storia vede protagonista Jackrabbit, una ragazza con un cervello matematico e i denti da coniglio. Ed è sparita. Pare che frequenti gente di colore. Pare che questo dispiaccia a qualcuno.

 

Ragione di delusione uno: l’inerzia. Fino a pag. 138 non è che succeda granché. Anzi, non succede nulla. Poi succede. Ma la scena è sgonfia. Quindi ci vogliono quasi trenta pagine perché una chiavetta usb venga inserita in un pc. E altre venti prima della codifica. E per il primo scambio di cortesie degno di questo nome si deve attendere pag. 194.

 

Ragione di delusione due: assente il consueto assolo lirico sul Texas, sul passato e sull’America che fu. Che saranno pure apparati un poco vieti (come il pozzo finto e la carriola portafiori nel giardino delle case finto-country in bassa bresciana) ma non stiamo leggendo Spinoza, siamo abituati ad averli, e l’abitudine costituisce tre quarti del piacere scatenato dalla narrativa di genere. Mi riferisco chiaramente al racconto degli uragani, della Depressione, delle paludi, dei cieli di sabbia e dei drive-in, e a tutti quegli splendidi ricordi che non abbiamo, del Texas andato, di quando la vita era più innocente, più intatta e il mondo era più facile e si potevano mangiare anche le fragole.

 

Detto ciò, da qualche mese Einaudi ha ristampato “L'ultima caccia”. E “La foresta”? L’avete letto, “La foresta”?

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