Facce dispari

Gualtiero Peirce, il geografo del Purgatorio napoletano

Francesco Palmieri

Autore del docufilm ‘Napoli l’aldilà di tutto’, un viaggio tra i luoghi dove i napoletani giocano da secoli a guerra e pace con la morte: il cimitero delle 366 Fosse, l’ossario delle Fontanelle, l’ipogeo della Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio, Santa Luciella ai Librai.

Per pudore o reticenza c’è di rado un racconto di Napoli, tra i tanti che si producono, in cui esplicitamente del Purgatorio si parli. Ma non può esserci racconto su Napoli che non ne contenga qualche riferimento, cifrato nella narrazione, alluso o sottinteso. Cattolico per concezione ma travolgente i dogmi nella pratica, assai più esteso del Paradiso e dell’Inferno, che la devozione napoletana con scettico realismo riserva entrambi a pochi, il Purgatorio s’assimila allo stato di sospensione, al bardo tibetano, al tempo supplementare elargito dalla grazia per scongiurare la retrocessione delle anime. È il terzo luogo, quello dispari, dell’aldilà. Poroso, comunicante coi vivi tramite preghiere, numeri, cabale oniriche, è la parentesi devozionale dei perplessi, persino degli irreligiosi, è un credo immune agli smartphone, lo spazio in cui generazioni senza dialogo continuano a parlarsi, il collettivo antidoto al terrapiattismo quanto all’incredulità per partito preso.

 

Gualtiero Peirce, della folta schiera dei napoletani a Roma, è stato in una vita precedente critico televisivo e pioniere del giornalismo online per poi diventare autore di programmi tv e sodale artistico, lungo un ventennio, di Massimo Ranieri. Fondatore nel 2010 della Cyrano New Media, si è appena cimentato con il Purgatorio nel docufilm ‘Napoli l’aldilà di tutto’ (in onda su Raitre lunedì 28 marzo alle 23.15). È un viaggio tra i luoghi dove i napoletani giocano da secoli a guerra&pace con la morte: il cimitero delle 366 Fosse, l’ossario delle Fontanelle, l’ipogeo della Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio, Santa Luciella ai Librai.

 

Com’è scattata l’intenzione di raccontare questo gran ‘detto-non detto’ dei napoletani?

Per la tentazione della public history: la voglia di condividere un patrimonio di luoghi meravigliosi che hanno segnato la quotidianità di un popolo e non vanno relegati nell’esclusività monumentale, ma dischiusi per conoscere meglio noi stessi.

 

Cos’è il Purgatorio?

Il territorio di confine tra la realtà e ciò che immaginiamo. Non una semplice fantasia, ma una zona dell’animo in cui i napoletani coltivano il rapporto tra la vita e la morte.

 

Perché un docufilm e non un documentario?

Per raccontare il Purgatorio dando corpo con gli attori alle emozioni del teatro e del cinema. Le protagoniste sono una mamma e una bambina: due stagioni della vita che affrontano un dolore con il rispettivo sguardo e trovano entrambe una risposta visitando certi luoghi. La piccola attrice Suami Puglia non era mai stata dove abbiamo girato: volevo che s’esprimesse con la massima autenticità.

 

Perché Napoli continua a esportare un surplus narrativo così copioso?

Napoli è al contempo luogo reale e metafora. Grazie all’intreccio di culture e umanità che ha condensato, ciò che vi accade è universale. Un esempio straordinario è la serie tratta da ‘L’amica geniale’: un rione circoscritto diventa l’arena dove ognuno, in qualunque momento della vita, può trovare la sua prigione o la sua libertà.

 

La dicotomia tra napoletani che restano e che se ne vanno data almeno dal secondo dopoguerra, con gli intellettuali descritti nel ‘silenzio della ragione’ da Anna Maria Ortese. Chi di loro racconta meglio la città?

Me n’andai a 27 anni per lavoro a Roma. Una distanza breve, ma che modifica il punto di vista. Chi resta, inquadra Napoli facendo il primissimo piano dei suoi occhi, chi se ne va la inquadra a figura intera. Se conservi un legame con un luogo, allontanarti diventa un vantaggio. Guardi dal balcone di fronte.

 

Napoli non rischia una sovraesposizione?

Da ragazzo ho avuto la fortuna di vivere una stagione di grande energia collettiva. Per esempio a due passi dal mio liceo c’era Villa Pignatelli, che nella Settimana della musica d’insieme apriva al pubblico anche per le prove. Uscivo dalla scuola e qualche minuto dopo ascoltavo Salvatore Accardo. Ora sono contento del successo della città, ma mi preoccupa il suo eccesso di fascino. Non vorrei che diventasse una seconda Venezia. C’è il ‘rischio palcoscenico’: che Napoli si svuoti dell’essenza e viva solo per essere rappresentata. Perciò riscoprire i luoghi delle anime purganti, sulla base di elementi storici, è stato come sedersi a tavola con tutta la famiglia, anche coi parenti antichi che non si conoscevano, per condividere sentimenti preservando l’identità passata.

 

Lei è stato tra gli artefici del primo sito online di un quotidiano italiano, repubblica.it. Perché lasciò il giornalismo?

Eravamo tre colleghi nel ’96, quando cominciò l’avventura. Dissi addio all’improvviso dopo le riflessioni di una notte, ricominciando da zero con un altro mestiere. Le ragioni le ho messe a fuoco negli anni successivi. Allora ebbi solo la sensazione che avevamo aperto una diga nell’informazione. Che non sarebbe più esistita la confezione delle notizie come la conoscevo, quell’incantesimo per cui già da bambino scrivevo articoli sulle partite di pallone. Come se il cibo cucinato venisse sostituito da una flebo che avremmo perennemente tenuto in vena. Non è un giudizio apocalittico, però vediamo quanto è diventato difficile sviluppare un punto di vista critico da questo perenne rumore di fondo.

 

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