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Paolo Nori: "Ecco la mia Russia, un paese da amare anche se fa paura"

Paolo Nori

Sovietica o no, allo scrittore emiliano, che ha visto il suo Dostoevskij censurato dalla Bicocca, sembra molto diversa da come la immaginiamo qui. Anche in questi giorni in cui tutti si sentono cremlinologi. La Russia che fa paura, i crimini di Putin, l’amore per un paese. Il racconto di un suddito di Tolstoj e Brodskij

Quando pubblico qualcosa sul Foglio, e ultimamente succede spesso, lo condivido sui social che frequento, che sono Twitter, Facebook e Instagram, anche se Instagram lo uso quasi solo per le dirette. E quando faccio così, quasi sempre c’è qualcuno che chiede “Sì, va bene, però perché sul Foglio?”. Io, devo dire, ho scritto anche sul Giornale, e sulla Verità, per cui sono abituato. Ho scritto anche su altri quotidiani, sul Manifesto, per dire, ma quando scrivevo sul Manifesto, e condividevo sui social, nessuno mi ha mai chiesto “Sì, va bene, però perché sul Manifesto?”. Devo dire che, per un certo periodo, anch’io la pensavo così. E mi piace parlarne qui, sul Foglio. Quando in Italia quasi tutti ci dividevamo tra quelli che erano a favore e quelli che erano contro un imprenditore lombardo che aveva fatto fortuna con le televisioni, io, non so come dire, non ero a favore. Era proprio una cosa viscerale che riguardava anche la ricchezza, e l’ostentazione della ricchezza, e l’arroganza, e la sicurezza di sé, e un’idea del mondo, e della famiglia, e della donna, e dell’uomo, non saprei dire bene, ma a me, quel signore lì, e mi piace dirlo qui sul Foglio, non mi piaceva.  

 

Mi ricordo una volta, dev’essere stato il 2000 o 2001, i treni veloci si chiamavano ancora Eurostar, ero su un Eurostar e il signore seduto di fronte a me ha aperto il giornale e quel giornale era il Foglio e io, mi ricordo, son rimasto stupefatto e anche un po’ offeso. Non pensavo fosse possibile una cosa del genere: sapevo che c’erano dei lettori del Foglio, ma pensavo lo leggessero di nascosto, a casa loro, nei bagni, non pensavo che potessero farlo in pubblico senza provare nessuna vergogna. E quel lettore, in particolare, mi era sembrato che leggesse talmente tanto che avevo pensato “Impossibile che trovi tutto così interessante, lo fa per provocare”. Dopo, qualche anno dopo, è successo che per caso mi è capitata in mano una copia del Foglio e mi sono accorto che, in prima pagina, c’era un articolo di Alfonso Berardinelli sull’uscita, per Adelphi, di una raccolta di poesie del poeta polacco Adam Zagajewski. In prima pagina. Come se fosse una notizia importantissima. E secondo me era, una notizia importantissima, e so anche dire il perché 

2. Elezioni in Russia

Una volta, qualche anno fa, un quotidiano mi ha chiesto cosa pensavo delle elezioni in Russia, non chi avrebbe vinto, che quella non era una previsione difficile, cosa ne pensavo, e io mi ricordo avevo pensato che, in Russia, ma non solo in Russia, anche in tutti gli altri posti, per come si era abituati a considerarle, le elezioni consistevano nel decidere chi avrebbe governato la Russia, e l’Italia, e l’Emilia, e Casalecchio di Reno, che era il posto dove abitavo, per i successivi quattro, o cinque, o sette, o vent’anni; il che voleva dire che io, lì in Emilia, dove abitavo, tra Bologna e Casalecchio di Reno, ero governato dalla giunta regionale emiliana, e dalla giunta comunale di Casalecchio di Reno, e ero stato governato da quella di Parma, quando abitavo a Parma, e da quella di Bologna, quando abitavo a Bologna in centro in via del Fico. 

Solo che io, secondo me, a ripensare al Maestro e Margherita di Bulgakov, che nelle prime pagine c’era una signora che aveva un chiosco di bevande nel centro di Mosca e apriva due succhi di albicocca e intorno si spandeva odore di pettinatrice, e io, da quando avevo letto quella cosa lì, tutte le volte che sentivo odore di pettinatrice pensavo al Maestro e Margherita, e se non avessi letto Il maestro e Margherita probabilmente non avrei mai riconosciuto, nella mia vita, l’odore di parrucchiera, o a ripensare a Pascal, “Vuoi che la gente dica bene di te? Non dirne”…

O a Voltaire, “Se un delinquente sapesse come ci si sente bene a comportarsi bene, si comporterebbe bene per delinquentaggine” o al narratore del Grande Gatsby, e al suo babbo che gli insegna una cosa sola, “Non giudicare”, o a Camilla Cederna, e cosa fa un poliziotto quando va al gabinetto? “Si porta nel locale adibito a toilette”, o alle opere di Learco Pignagnoli, filosofo emiliano, e a tutte le volte che mi è tornato in mente che “Tranne me e te, il mondo è pieno di gente strana, e poi anche te sei un po’ strano”, o a Iosif Brodskij – “I rintocchi del campanile / che ha messo radici nel cielo veneziano: / frutti che cadono senza toccare / il suolo. Se esiste un’altra vita, / lì qualcuno si occupa della raccolta / di queste cose”, o a Daniil Charms, e “Quando compri un uccello, guarda se ci sono i denti o se non ci sono. Se ci sono i denti, non è un uccello”, ecco a me, quella volta là, era venuto da pensare che io, invece che dai vari governi pentapartito o monocolore che si dice si siano alternati alla guida del paese negli anni della mia adolescenza e della mia giovinezza, io, piuttosto che da loro, ero stato governato da Bulgakov, da Fitzgerald, da Iosif Brodskij, da Blaise Pascal, da Voltaire, da Honoré de Balzac, da Venedikt Erofeev, da Kurt Vonnegut, da Albert Camus, da Anna Achmatova, da Lev Tolstoj, da Nikolaj Gogol’, da Fëdor Dostoevskij, da Learco Pignagnoli, da Velimir Chlebnikov e ero stato, delle volte, per degli attimi, per dei giorni, per dei mesi, un suddito felice e riconoscente. 

 

Allora per me, un evento politico più importante delle elezioni di Casalecchio di Reno, o di Bologna, o di Roma, o di Strasburgo, o di Mosca, o di Washington, sarebbe stato che qualcuno, da qualche parte, in Emilia, o in Russia, o in Ucraina, o in Francia a Parigi, o in Borgogna, o a Indianapolis, o a San Pietroburgo, qualcuno, di notte, nel suo appartamento, uno che non sapevo neanche come si chiamava, e che faceva, probabilmente, un mestiere normale, come ispettore delle mense scolastiche, o qualcosa del genere, sarebbe stato importante che quello lì continuasse a scrivere il romanzo al quale stava lavorando da dei mesi, che continuasse a rubare tempo al sonno per tirare fuori dalla sua pancia il romanzo destinato a governarci e a fare di nuovo di noi, che non avevamo altro che il nostro spaesamento e la nostra disperazione, dei sudditi felici e riconoscenti, speriamo, speriamo, avevo pensato quella volta che mi avevano chiesto cosa pensavo delle elezioni russe. 

3. L’intelligenza

Quando era successa questa cosa che mi avevano chiesto delle elezioni russe, io, mi dispiace dirlo sul Foglio, ero già diventato un lettore del Foglio, e avevo scoperto che il Foglio, tra tutti i quotidiani italiani che avevo mai letto, era il più polifonico, il meno prevedibile, il più bello, quello che mi piaceva di più, e quando una volta Giuliano Ferrara mi ha telefonato e mi ha chiesto di scrivere un pezzo per il Foglio, io son stato contento e gli ho detto di sì e se adesso incontro, su un treno veloce che non si chiama più Eurostar, qualcuno che mi apre un giornale davanti e quel giornale lì è il Foglio, è possibile che quello lì stia per leggere un pezzo che ho scritto io. 
Cos’è successo? Son diventato più intelligente? 

No, son sempre stato intelligente; alla mamma di mia figlia, che si chiama Francesca, le dico sempre “Con la tua forza e la mia intelligenza andremo lontano”, e lei mi dice delle brutte parole. 
Sono sempre stato intelligente, ma non serve a tanto, essere intelligente: “Non c’è niente di più stupido di una persona intelligente”, dice un mistico del Caucaso che mi è molto simpatico; non sono diventato più intelligente, ho cambiato idea sul Foglio: rispetto al Foglio, ho cambiato partito. Nel 1943 Simone Weil, in un appunto che poi diventerà parte del Manifesto per la soppressione dei partiti politici, scrive: “Quasi ovunque, e spesso anche per questioni squisitamente tecniche, il fatto di prendere partito, di prendere posizione pro o contro, ha sostituito il fatto di pensare. E’ una peste che si è originata nel contesto politico e si è diffusa a tutto il paese, alla quasi totalità del pensiero”. 

Prendere partito sostituisce la pratica del pensare.  Io ero del partito contrario al Foglio, perché non mi piaceva quel signore lombardo che dicevamo prima, e il Foglio non l’avevo mai letto. Avevo una mia idea del Foglio, che non era un’idea mia, perché non ci avevo pensato, al Foglio, non l’avevo studiato, il Foglio, non mi ero fatto un’idea mia, avevo assunto quella degli altri, avevo preso partito.  Fin qui, è chiarissimo. Se al Foglio sostituiamo la Russia, diventa più complicato. 

4. La Russia

Il 20 febbraio, pochi giorni prima che cominciasse tutto quello che è successo in Ucraina e in Russia, ho consegnato l’introduzione che mi era stata chiesta per un libro della Luiss University Press che contiene gli articoli generati dal viaggio che il barone inglese John Maynard Keynes, celebre economista, fece in Russia nel 1925. Il libro si intitola Qualche impressione sulla Russia, uscirà in aprile e la Luiss University Press mi ha dato l’autorizzazione a riportare qui sul Foglio qualche paragrafo di quella introduzione.  L’introduzione si intitola Fa paura, ed è la Russia, a fare paura.

5. Fa paura

5.1 Mi dispiace

Ci sono una cosa che mi dispiace e una che mi piace, nel fatto che Luiss University Press mi abbia chiesto di scrivere una introduzione a questi articoli di Keynes. Mi dispiace la mia ignoranza in campo economico, che mi fa pensare che Keynes meritasse un’introduzione più informata, mi piace il fatto di aver letto un testo in cui un occidentale riesce “a simpatizzare con chi cerca qualcosa di buono nella Russia sovietica”. Che la Russia sovietica, e anche la Russia non sovietica, a me sembra molto diversa da come ce l’immaginiamo da qui, dall’occidente. Qualche anno fa, in Italia, in settembre, su un treno regionale che andava da Bologna a Parma, poco dopo la fine dell’orario di lavoro, quei treni da pendolari nei quali, se non sei tra i primi a salire, fino a Modena trovi solo posti in piedi, su uno di quei treni io ero lì, in piedi, nel corridoio, e avevo sentito, senza volere, un signore che raccontava al suo dirimpettaio, che era probabilmente un suo collega, di esser stato in vacanza a Mosca, e di avere visto delle cose bellissime, come per esempio la metropolitana e, di fronte all’espressione interdetta del dirimpettaio si era sentito in dovere di dire “Ah ma, l’hanno fatta gli zar, eh?”. E a me era venuta voglia di dirgli “No guardi, la metropolitana di Mosca è vero che è bellissima, ma l’hanno inaugurata nel 1935, l’hanno fatta i sovietici. Solo che non gliel’avevo detto, e secondo me avevo fatto bene perché avrei dovuto dirgli anche tante altre cose e, probabilmente, non avrei avuto la calma necessaria per dirgliele, su quel treno affollato.  

Cioè che i sovietici, insieme alla metropolitana, avevano fatto molte altre cose bellissime, come gli uffici oggetti smarriti delle tranvie di Pietrogrado, o la liberazione di Auschwitz, per esempio, o l’istruzione gratuita per tutti, e avrei potuto anche aggiungere che, quando l’ho vista io, nel 1991, “Mi dispiace”, avrei detto,  “era un posto bellissimo, che era così grigio, così povero, così misero, così fatto a mano, così diverso dai nostri posti, che scintillava di bellezza, di dolore, di amore, di solidarietà, mi dispiace ma a me era sembrato così”, avrei detto a quel signore su quel treno affollato.

5.2 Quello che sta succedendo

Mi è capitato, qualche anno fa, di leggere un libro molto interessante sul modo in cui, in Unione Sovietica, venivano decisi i prezzi. Si intitola L’ultima favola russa, l’ha scritto Francis Spufford, l’ha pubblicato in Italia Bollati Boringhieri (traduzione di Carlo Prosperi), e in quarta di copertina si legge che è “impossibile pensare a un libro che comunichi altrettanto bene la quotidianità della vita in Unione Sovietica”.

Ecco, a me, il libro di Spufford, “docente al Goldsmiths College di Londra nominato nel 1997 giovane scrittore dell’anno dal Sunday Times”, è sembrato una specie di Lettere persiane al contrario. Lettere persiane, come si sa, è un romanzo epistolare di Montesquieu in un cui Montesquieu fa finta di essere un persiano nella Francia di fine Settecento che scrive a un suo corrispondente persiano e gli descrive la vita dei francesi, per esempio gli racconta che i francesi di fine Settecento (cito a memoria) hanno un’abitudine stranissima, che ogni tanto tirano fuori dei rettangoli di stoffa, che tengono nascosti dentro i vestiti, e li avvicinano al naso proprio nel momento in cui dal naso sta per uscire un materiale segreto, di colore indefinito, tra il giallo e il verde e il marrone, evidentemente molto prezioso perché i francesi, scrive il finto persiano al suo finto amico persiano, lo nascondono molto velocemente e furtivamente dentro il rettangolo di stoffa che poi, altrettanto velocemente e furtivamente, rinascondono dentro i vestiti.

Cioè: fingendosi un persiano, fingendosi estraneo alla propria contemporaneità, Montesquieu costruisce una macchina narrativa che corrisponde a una specie di binocolo endotico, una macchina che mette in rilievo tutte le stranezze dei comportamenti suoi (di Montesquieu), mettendolo in una condizione di naturale e felice straniamento, verrebbe da dire. Spufford, invece, nei ringraziamenti dell’Ultima favola russa scrive: “Prima dei ringraziamenti, una confessione: ho scritto questo libro senza saper parlare né leggere il russo, e ho quindi potuto attingere a una piccola parte dei materiali disponibili”.

Con questo materiale a disposizione, Spufford mette in scena protagonisti russi, come Nikita Khrushchëv, o il cantautore Aleksandr Galich, o il matematico Leonid Vital’evich Kantorovich, o Leonid Brežnev, e costruisce una macchina che corrisponde a una specie di binocolo esotico; cioè se Montesquieu, tramite i suoi protagonisti persiani, diceva continuamente, ai suoi lettori francesi, “Guardate come siamo strani, e coglioni”, sembra che Spufford dica continuamente ai suoi lettori anglosassoni “Guardate come erano strani, e coglioni, i sovietici”.

Che è una cosa che, un po’, è un peccato, perché l’idea del libro, di raccontare, in forma romanzesca, il modo in cui in Unione Sovietica si dava il prezzo alle cose, è un’idea molto bella, e fertile, e dev’essere stata una storia bellissima, solo che dal libro di Spufford a me non sembra che salti fuori, mentre continuamente salta fuori che erano strani, e coglioni, e ingenui, i sovietici, e che l’Unione Sovietica era un posto triste, e grigio, e ingiusto, e pieno di delinquenti, e di fool, e di sardine decapitate mentre per me, che il russo un po’ lo so, e che un po’ ci son stato, in Unione Sovietica, per me l’Unione Sovietica è stato un posto, per esempio, dove una volta, me lo ricorderò finché scampo, a Leningrado, un giorno che pioveva, ho preso un filobus, il filobus numero 10, sulla prospettiva grande dell’isola Vasil’evskij, per andare in biblioteca, e il filobus era pieno di gente dappertutto tranne che in un cerchio di un metro di diametro, perché sul tetto del filobus c’era un buco, e loro, gli addetti all’azienda dei trasporti urbani di Leningrado, o come si chiamava, cosa avevano fatto? Avevano fatto un buco sul pavimento, del filobus, di un metro di diametro, e l’acqua passava, e il filobus andava, “E questa, – avevo pensato, – è l’Unione Sovietica”.

E non sapevo, allora, che nel 1925 John Maynard Keynes aveva scritto, dell’Unione Sovietica, che “A tratto, malgrado la povertà, la stupidità e l’oppressione, si ha la sensazione che sia questo il laboratorio della vita. E’ qui che gli elementi chimici vengono mescolati in nuove combinazioni, è qui che puzzano ed esplodono. Potrebbe – c’è una piccola possibilità – venirne fuori qualcosa. E anche una sola possibilità rende quanto sta succedendo in Russia più importante di quanto sta succedendo (diciamo così) negli Stati Uniti d’America”. 

5.3 Paura

“Certo” conclude Keynes, “è ragionevole aver paura della Russia, come fanno i gentiluomini che scrivono per il Times”, e viene ancora da dargli ragione.  Per Erodoto, i popoli che vivono al nord, nelle terre adesso abitate dai russi, si chiamano Sciti, e un grande poeta russo, Aleksandr Blok, nel 1918 scrive una poesia che si intitola Sciti nella quale i russi, un anno dopo la rivoluzione, si rivolgono agli occidentali 


Voi siete milioni. Noi nugoli, e nugoli, e nugoli. 
Provate a combattere con noi. […] 

Di amar così come ama il nostro sangue 
Tra voi nessuno è più capace. 
Avete dimenticato che esiste un amore 
che brucia e che distrugge. 
Noi amiamo tutto: e l’ardore dei freddi numeri 
e il dono delle visioni divine. 
Noi capiamo tutto: e l’acuto spirito gallico 
e il tenebroso genio germanico… 

Noi ricordiamo tutto: l’inferno delle strade parigine 
e il fresco di Venezia, la lontana 
fragranza dei boschetti di limoni 
e le moli fumose di Colonia… 

Noi amiamo la carne – e il suo gusto e il suo colore 
e l’afoso, mortale odore della carne… 
E’ colpa nostra forse se scricchia il vostro scheletro 
tra le nostre pesanti, carezzevoli zampe?


Ha ragione, Keynes, fanno paura.   Lo so anch’io. Qualche anno fa, quando una rivista russa, Inostrannaja literatura, (Letteratura straniera) mi ha intervistato, alla fine, alla domanda di Anna Jampol’skaja su come mai mi piacesse così tanto la Russia, io mi ricordo ho risposto che la Russia mi piace perché fa paura. 

5.4 Gli Stati Uniti d’America

E voglio finire con una cosa che è successa, diciamo così, negli Stati Uniti d’America. Viene da un libro del 2012 di Jonathan Franzen, una raccolta di saggi che si intitola Più lontano ancora (Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi). Franzen è, spero di non sbagliare la definizione, un animalista, e si dà molto da fare per i diritti degli animali, degli uccelli in particolare e, alla fine del primo saggio del volume, che poi è un discorso letto ai laureandi del Keyton college nel maggio del 2011, dice: 

Ma quando la mia conversione ornitologica mi insegnò a correre incontro al dolore, alla rabbia e alla disperazione, anziché evitarli, cominciai ad accettare un nuovo genere di incarichi giornalistici. Di volta in volta, la cosa che odiavo di più diventava l’argomento di cui volevo scrivere. Andai a Washington nell’estate del 2003, arrabbiato per quello che l’Amministrazione Bush stava facendo al Paese. Qualche anno dopo andai in Cina, perché la rabbia per i disastri ambientali provocati dai cinesi mi teneva sveglio di notte. Andai nel Mediterraneo per intervistare i cacciatori e i bracconieri che massacravano gli uccelli migratori. Ogni volta, quando incontravo i miei nemici, trovavo in loro qualcosa che mi piaceva, a volte addirittura che amavo. Membri gay dello staff repubblicano, divertenti, generosi e brillanti. Giovani cinesi amanti della natura e incredibilmente coraggiosi. Un legislatore italiano con lo sguardo dolce e la mania delle armi, che mi citò Peter Singer, il difensore dei diritti degli animali. In ciascun caso, era difficile continuare a provare quella generica avversione che avevo provato all’inizio. 

Quando vi chiudete nella vostra stanza ad alimentare la rabbia, lo sdegno o l’indifferenza, come ho fatto io per tanti anni, il mondo e i suoi problemi vi sembrano impossibili da affrontare. Ma quando uscite e vi impegnate in un rapporto reale con persone reali, o anche solo con animali reali, correte il rischio molto reale di finire di amarne qualcuno. E allora chissà che cosa potrebbe succedere?
Grazie. 

6. Tanti anni fa

In un libro che ho scritto io, tanti anni fa, che si chiama La meravigliosa utilità del Filo a piombo (è pubblicato da Marcos y Marcos), c’è scritto che ogni tanto, non è molto frequente, ma ogni tanto ci son dei periodi che io sto proprio bene, e quando sto bene non guardo la televisione, non leggo i giornali, e se sto proprio benissimo riesco anche a non sentire neanche la radio. E in uno di quei periodi è successo che è morto l’ultimo Papa che è morto, Giovanni Paolo II, e io, di questa morte del Papa, e del successivo convegno di cardinali per eleggerne un altro, l’ho saputo per via che nel bar dove andavo a far colazione, sotto casa mia, a Bologna, eran diventati tutti dei vaticanisti. 

Un bar che fino a pochi giorni prima era frequentato da bancari, studenti, pensionati, commercialisti, idraulici, sarti, professori di ginnastica, tabaccai, ortopedici, musicisti, impiegati comunali, bidelli, avvocati, fisioterapisti, garagisti e bibliotecari, tutto d’un tratto, dans l’espace d’un matin, c’è scritto in quel libro lì, era diventato il bar dei vaticanisti. 

E discutevano fra loro, e si dividevano in fazioni, e c’erano i bene informati e i male informati, e c’era chi assicurava che il giorno successivo tutto sarebbe finito, e chi diceva che no, che per altri tre giorni niente fumata bianca, e era in tutto e per tutto quello che un mio amico chiamava la recita del pensare, e per un momento sembrava che radio, e giornali, e televisioni servissero a quello, a permettere alla gente di abbandonarsi a questa generale recita del pensare e per un attimo uno se lo dimenticava, che invece servono per vendere la pubblicità.   

Dopo, nel gennaio del 2009, era tanti anni fa, compiva gli anni mio fratello Emilio, mi sono trovato a Parma a cena con i miei due fratelli e mia mamma. Era il periodo della crisi dell’Alitalia, e la prima mezz’ora che siam stati a tavola mio fratello Giulio, mio fratello Emilio e mia mamma hanno parlato solo di trasporti aerei, e ne han parlato come se fossero degli esperti, tanto che io a un certo punto ho guardato mia mamma le ho detto “Mamma, tu non hai mai volato in vita tua, cos’è successo, hai fatto un corso?”. 

7. Oggi

Oggi, in Italia, e in occidente, ho l’impressione di essere circondato da un sacco di gente che non è mai stata in Russia, che non sa il russo, ma sanno tutto della Russia, son tutti dei cremlinologi che sanno perfettamente che le cose belle, come la metropolitana, non l’han fatta i sovietici, l’ha fatta lo zar. E chissà se questi cremlinologi hanno mai sentito parlare di un russo che si chiama Velimir Chlebnikov, che ha scritto una poesia senza titolo che mi viene in mente tutte le volte che vado in Russia e alzo la testa a guardare il cielo, e fa così “Poco, mi serve. / Una crosta di pane, / un ditale di latte, / e questo cielo, / e queste nuvole”. Ecco quel poeta ha scritto un’altra poesia, che si intitola Rifiuto, che secondo me i cremlinologi di oggi si meraviglierebbero, a sapere che è stata scritta da un russo (viene da un’antologia che si chiama 47 poesie facili e una difficile, l’ho tradotta io, l’ha pubblicata Quodlibet). 

8. Un russo


RIFIUTO

Per me è molto più piacevole
Guardare le stelle
Che firmare una condanna a morte.
Per me è molto più piacevole
Ascoltare la voce dei fiori,
Che sussurrano “E’ lui”
Chinando la testolina,
Quando attraverso il giardino,
Che vedere gli scuri fucili della guardia
Uccidere quelli
Che vogliono uccidere me.
Ecco perché io non sarò mai,
E poi mai, un Governante.

9. Domani

Intanto in Russia succedon delle cose, come il fatto che il Parlamento ha proposto una legge che prevede la chiamata alle armi di quelli che vengono fermati a protestare contro la guerra. E ha approvato una legge che, per la diffusione di notizie false sull’operazione di denazificazione, come la chiamano loro, per la diffusione delle cosiddette fake news, aumenta le pene fino a quindici anni.  In conseguenza di ciò, il canale indipendente Dožd Tv, fondato nel 2010, ha chiuso. Era la mia fonte principale. Resta la radio Echo Moskvy, che ha chiuso come radio ma funziona ancora su YouTube. L’altro giorno, il conduttore di Dožd Tv ha intervistato due giornaliste di Echo Moskvy e ha chiesto loro “Ma come fate con la legge sulle fake news?”. “Non ci riguarda, noi non diffondiamo fake news, noi diciamo la verità”, hanno detto loro sorridendo. Erano bellissime. E di queste cose bruttissime, e di queste persone bellissime, ricomincio a parlare a cominciar da domani. 
 

[Aggiornamento: per decisione del proprietario (Gazprom) il canale YouTube di Echo Moskvy è stato chiuso].

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