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saggezza e morale

La virtù della prudenza: non paura del rischio, ma realizzazione della felicità 

Sergio Belardinelli

Essere prudenti non ha a che fare con il calcolo delle conseguenze di ogni azione né con il principio di precauzione. Ma, come diceva Aristotele, riguarda la “capacità di deliberare bene su ciò che è buono e utile per una vita felice in senso globale”

Prudentia è parola latina che traduce la greca phronesis e significa ovviamente prudenza, saggezza: uno dei cardini della vita morale fin dai tempi di Aristotele. Il cristianesimo ne farà una delle quattro virtù cardinali. Ma oggi il suo significato si direbbe piuttosto appannato. Si raccomanda prudenza ai figli quando escono in automobile con gli amici o con la fidanzata e in tutte quelle attività dove occorre calcolare e ridurre il più possibile i “rischi”, ma non è più così evidente il bene morale che essa attualizza. Un po’ come pensava Kant, questa idea di prudenza sembra costituita da semplici precetti tecnico-pratici; indica una forma di abilità, grazie alla quale è possibile raggiungere determinati scopi, una forma di scaltrezza che per Kant si esprimeva in particolare nella capacità di avere influenza sugli uomini, ma non indica una dimensione morale in senso proprio. 

 

Kantianamente, è noto, la morale riguarda soltanto la coscienza individuale, ciò che la coscienza giudica buono, senza curarsi minimamente delle conseguenze di un’azione. Come si legge nell’introduzione alla Critica del Giudizio, “tutte le regole tecnico-pratiche (cioè quelle dell’arte e dell’abilità in generale, e anche della prudenza, in quanto attitudine ad avere influenza sugli uomini e sulla loro volontà), in quanto i loro principii riposano su concetti, debbono essere annoverate soltanto tra i corollari della filosofia teoretica”. Spettano invece alla filosofia pratica, dunque alla morale, soltanto i “precetti etico-pratici”, cioè quei precetti “che non siano soltanto precetti e regole relative a questo o quello scopo, ma leggi senza precedente riferimento a scopi ed intenzioni” e determinati soltanto dal “concetto della libertà”. Il dovere per il dovere insomma. 

 

Applicato alla vita sociale, il concetto di prudenza come semplice “regola tecnico-pratica” presenta dei risvolti per molti versi paradossali. Fermo restando che, ad esempio, l’educazione dei figli è senz’altro anche una pratica che ha a che fare con una forma di “abilità” in senso kantiano; è pur vero, però, che difficilmente si potrebbe ridurre l’educazione all’applicazione di “regole”. L’educazione si configura come qualcosa che mettiamo in pratica per lo più mentre stiamo facendo altro; è un “bene” che si attualizza mentre insegniamo come si risolve un problema di geometria, come si legge un testo poetico, come si coltivano i fiori o come si cuoce un dolce. In tutte queste attività che richiedono abilità tecniche, l’educatore cerca di innestare lo stupore per la realtà, la bellezza della vita e il gusto della conoscenza: tutte caratteristiche che possiamo soltanto sperare che si aggiungano a ciò che cerchiamo di insegnare, ma senza averne alcuna certezza preventiva.

 

È per questo che, per educare veramente, ci vuole passione, dedizione e, soprattutto, amore. Ed è per questo che anche il famoso detto “fiat iustitia, pereat mundus”, in cui Kant sintetizza l’idea moralmente piuttosto stravagante di un presunto “dovere per il dovere”, rivela in certe relazioni sociali come l’educazione tutta la sua astrattezza. Nessun genitore accetterebbe di compiere un’azione, semplicemente perché la considera un suo “dovere”, senza curarsi minimamente degli effetti negativi che questa azione potrebbe avere sui suoi figli. Un genitore commisura sempre le proprie intenzioni alle possibili conseguenze del proprio agire, almeno per quel poco o tanto che queste sono prevedibili. Eppure il concetto kantiano di “prudenza”, la capacità di calcolare i rischi e l’“attitudine ad avere influenza sugli uomini e sulla loro volontà”, scardinata dal bene morale in senso proprio che si persegue, sembra oggi andare per la maggiore a tutti i livelli della nostra vita sociale. 

 

Se tutto deve essere sottoposto a negoziazione, se tutto ha ormai il carattere di un “esperimento”, essendo gli esperimenti rischiosi, ne consegue che essi esigono in misura crescente quella particolare forma di abilità che ci permette di prevenire in anticipo gli eventuali danni; esigono prudenza, appunto. Ma a forza di essere “prudenti” in senso sbagliato, a forza di calcolare i possibili rischi delle nostre azioni, vedi l’uso parossistico che tendiamo a fare del cosiddetto “principio di precauzione”, ci allontaniamo sempre di più dalla realtà. I rischi ci appaiono sempre più insopportabili; preferiamo una realtà virtuale, l’inazione e magari una vita in solitudine, piuttosto che una vita fatta di relazioni reali, quindi di rischi e responsabilità, ma anche di reali soddisfazioni e di vera felicità. 
Per fortuna, però, ci piaccia o meno, la prudenza resta pur sempre una virtù che fa riferimento alla “felicità”, alla pienezza della nostra vita, ben più significativa, quindi, del semplice calcolo delle convenienze.

 

Aristotele la definisce come la “capacità di deliberare bene su ciò che è buono e vantaggioso non da un punto di vista parziale, come per esempio per la salute, o per la forza, o per la ricchezza, ma su ciò che è buono e utile per una vita felice in senso globale”. Qui la prudenza è sostanzialmente una virtù che realizza il proprio fine nell’atto stesso in cui essa si esercita in quanto virtù. Che è come dire: la felicità non è un “fine” che si raggiunge approntando i mezzi, come quando si conficca un chiodo nel muro per appendervi un quadro. Aristotelicamente parlando, “l’agire moralmente bene è un fine in se stesso”. L’uomo saggio e prudente è dunque l’uomo d’azione, colui che agisce con virtù e, agendo, realizza il bene per sé e per gli altri. Saggi sono quegli uomini “che sono capaci di vedere ciò che è bene per loro e per gli uomini in generale”, “che sanno amministrare una famiglia e una città”, senza essere minimamente sfiorati, aggiungo io quasi kantianamente, dall’idea che il bene possa essere imposto agli individui contro la loro volontà. 

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