la magia delle sale scomparse

Racconti e cataloghi nell'ultimo gioiello di Michele Mari

Mariarosa Mancuso

Golem, teschi e vecchi cinema. Com’è bella la sfilata tra le rovine di Sferopoli

La lingua batte dove il dente duole, andiamo subito all’ultimo racconto “Vecchi cinema”. Un catalogo delle sale cinematografiche nella Milano anni 70. Michele Mari è nato nel 1955, quando ancora valeva la frase di Italo Calvino: “Per molti anni il cinema è stato per me il mondo”.

Il catalogo comincia con “Abadan, Abanella, Abanera, Abc”, sale periferiche di seconda e terza visione che disperatamente cercavano di avvantaggiarsi con l’ordine alfabetico. Prosegue con i cinema spariti o diventati centri commerciali, e i cinema che in quel periodo felice aprivano alle dieci del mattino: il centralissimo e minuscolo Rubino, meta degli studenti annoiati dalla scuola. Si entrava a qualsiasi ora, si usciva quando il film era finito e poi ricominciato fino al punto fatidico: “ecco siamo entrati qui”.

Le maestose rovine di Sferopoli (Einaudi) è una sfilata di meraviglie. Non tutte a forma di catalogo, come i “Vecchi cinema”. Chi ha letto Leggenda privata sa quanto Michele Mari sia bravo a intrecciare l’autobiografia con tocchi horror. Chi ha letto Cento poesie d’amore a Ladyhawke” sa quanto è bravo a intrecciare la poesia lirica con il pop. Chi ha letto Roderick Duddle sa quando è bravo a scrivere il suo romanzo dickensiano. Il catalogo è il grado zero dei racconti, gli altri hanno forme classiche e moderniste.

“Strada provinciale 191” è l’école du regard applicata a una guida turistica. Al chilometro tale il tal castello, “dove il monaco Urgulone praticava l’arte di cristallizzare i cadaveri”. Dolce locale il pangreve. Torta salata lardellata di ciccioli e fritta nello strutto. E via, fino a “mosaici labirintici in cui perderete il senno che vi resta”, assaggiata una specialità locale “di asfalto e lamiera”.

"Argilla” racconta la gara dei golem (gustosa aggiunta alle leggende ebraiche, si intende dopo il prologo in Yiddish del film “A Serious Man”, dei fratelli Coen). Gli otto rabbini più potenti del mondo si riuniscono vicino a una cava di argilla. Con un quintale e mezzo di materiale (non di più, le regole sono rigide) ognuno fabbrica il suo golem, da animare con regolamentare cartiglio posto sotto la lingua (la creatura non deve sapere il suo nome, in caso contrario avrebbe una sua volontà). I golem appena fatti partecipano a prove di resistenza, lotta, velocità. I rabbini sono molto competitivi, uno di loro crede di aver l’idea vincente: fabbricare un piccolo golem che lo aiuti nella fabbricazione di un golem mostruoso e invincibile (finisce malissimo).

Un altro racconto, fa da sfondo un castello, riferisce che “numerosi teschi si siano dati convegno per parlare delle cose loro”. Son frasi che fanno innamorare all’istante. Le frasi di uno scrittore. Uno che scrive libri perché è più bravo di noi che leggiamo. Soprattutto, è più bravo di tanti scrittori – ahimé celebrati – che raccontano i fatti loro in prima stesura (l’importate è che facciano dire al lettore “oh poverino!”, nuova categoria critica senza barriere d’entrata). Le cose loro (dei teschi) son le “cappuzzielle dei pezzentielli”, da adottare, ripulire e pregare, nelle cripte con le ossa a vista.

Bozzetto campagnolo? Eccolo: due parroci golosi di funghi, acerrimi nemici. Guizzo sperimentale? Ha per titolo “Le fonti del mondo”. Svolgimento: per ogni verso della canzone “Il mondo” (in coro: “non si è fermato mai un momento”) di Jimmy Fontana, arriva una sventagliata di citazioni in tema. Da Shakespeare a John Steinbeck, da Leopardi a Cormac McCarthy, da Stephen King a Eugenio Montale: “Cigola lo zinco fucinato / nel silenzio in cui sperdi il tuo contorno”. Apocrife, spiega la nota. Inventate con sapienza tecnica e gusto per lo sberleffo.
 

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