Foto: Daniel Dal Zennaro/ Ansa

Paradossi da pandemia

Posto fisso te saludi: il Milanese Imbruttito si converte alla decrescita felice

Maurizio Crippa

Il Milanese Imbruttito si è stancato di “correre per fatturare”. Un film comico coglie un fenomeno attuale: milioni di persone lasciano il posto fisso per cercare un lavoro e una vita migliori. Rivoluzione o anche un po’ di fancazzismo?

"Ogni mattina nella city un Imbruttito si sveglia e sa che dovrà correre per fatturare”. O almeno era così, nella capitale mondiale degli Imbruttiti, prima che arrivasse il Covid. Il lockdown, gli uffici chiusi, i bar col green pass, il lavoro (abbruttito) da casa. Prima, era quando il Milanese Imbruttito era “operativo anche nel sonno, perché chi dorme non piglia K”. Adesso, anche lui s’è rassegnato: “Mollo tutto e apro un chiringuito”.

Come sanno tutti, o almeno lo sanno i milanesi tendenza imbruttita – evoluzione dello stereotipo metropolitano lavoro-guadagno-spendo-pretendo – Mollo tutto e apro un chiringuito è il titolo del primo film targato Il Milanese Imbruttito. Uscito con simbolico tempismo il 7 dicembre: il giorno in cui per i milanesi iniziano le feste di Natale, e di tutto il resto “ne parliamo a gennaio”. L’Imbruttito è il personaggio eponimo dei video comici inventati su YouTube e poi su Instagram da Germano Lanzoni, che dal 2010 gioca con la maschera del bauscia imprenditore, versione 2.0 del mitico Dogui degli anni Ottanta. Non che ci sia graffiante satira sociale, non che il film sia indimenticabile (se la gioca con qualsiasi cinepanettone romanesco). Ma forse per caso, o forse per l’intuizione di autori collaudati che da anni osservano i tic della capitale economica malata di produttività, lo spunto  dichiarato già dal titolo coglie in pieno un fenomeno sociale attuale.

 

Un vecchio sogno metropolitano

La storia, in due parole: il Milanese Imbruttito non ce la fa più ad alzarsi tutti i giorni e correre per fatturare, non è più vita dài, e decide di cambiare. In Sardegna. Un nuovo business a misura di milanese con voglia di relax ma “solo per gente selezionata”: un bel chiosco sulla spiaggia. Un sogno rincorso già da tempo, avrebbe detto Jannacci, dai quaranta-cinquantenni metropolitani: possibilmente colletti bianchi o comunque digitalizzati da ufficio. Gente che, sondaggi pre Covid alla mano, se non proprio un chiringuito, sognava di trasformare la vecchia casa di campagna dei nonni in un B&B o un agriturismo, di mettersi ai fornelli o di impiantare una vigna (però quello è riuscito solo a Max D’Alema, eh). Mollare il vecchio lavoro a ritmi ossessivi, i risultati mai all’altezza, i conti da far quadrare, le colleganze tossiche. E rifarsi una vita. Non è un sogno nuovo, è un mito transgenerazionale di lunga durata. Con altre pretese cinematografiche, il rifugio di un Puerto Escondido era già un film (milanesissimo) di trent’anni fa di Gabriele Salvatores, che non a caso chiudeva la sua “tetralogia della fuga”.

 

Dagli Stati Uniti all'Italia: dilaga la Great Resignation

Con ambizione meno politica – là Abatantuono fuggiva dalla società del business, cioè del crimine – il nostro Imbruttito ha però colto qualcosa che sta avvenendo davvero. Quello che qualcuno chiama “il nuovo elefante nella stanza” e che sta cambiano (almeno un po’) il mercato del lavoro. Per rimanere ancora un attimo a Milano, in Lombardia nel 2021 si sono registrate oltre centomila dimissioni volontarie da lavori a tempo indeterminato. Il 37 per cento in più rispetto al 2020. Ma la capitale Imbruttita è pur sempre la periferia dell’impero: negli Stati Uniti il fenomeno dell’abbandono volontario di un posto di lavoro è così grande da essere ormai conosciuto come Big Quit, o Great Resignation. Le Grandi Dimissioni. In America, lo scorso agosto, 4 milioni e 300 mila lavoratori hanno rinunciato all’impiego.

Non è solo lo stress da Covid. E’ che dopo aver sperimentato le limitazioni pandemiche, ma anche le possibilità del lavoro da remoto, molta gente ha iniziato a cercare impieghi più liberi, più interessanti economicamente – nell’informatica e nelle nuove professioni digitalizzate – e che garantissero una qualità della vita migliore (e meno tempo lavoro). Un fenomeno che, negli States, riguarda soprattutto lavoratori ad alta specializzazione. Un movimento sociale macroscopico che interessa da tempo gli studiosi. Quello che sembrava essere uno tsunami circoscritto al maledetto 2020 del Covid è invece ancora in pieno svolgimento: secondo il Bureau of Labor Statistics, quasi il tre per cento della forza lavoro statunitense si è dimesso a ottobre, battendo il record registrato in settembre. Non sempre con la stessa modalità: per alcuni è un anno sabbatico, per altri un pensionamento anticipato o una scelta motivata da “responsabilità di cura”. Milioni di persone stanno riconfigurando le loro carriere, altri hanno deciso di lavorare come autonomi.

Anthony Klotz, docente di Management alla Texas A&M University e noto per essere l’inventore dell’espressione “Great Resignation”, spiegava qualche giorno fa alla Bbc che le persone non se ne vanno semplicemente: è una “tendenza a fare scelte deliberate per le proprie vite, invece di avere vite che si incastrano nel loro lavoro”. Klotz le chiama “epifanie pandemiche”, molte persone sono state illuminate e ora sanno meglio cosa vogliono dal lavoro – e come ottenerlo.  Quanto varrà, in termini globali, questo cambiamento? Nessuno lo sa. Ciò che è chiaro è che la differenza, rispetto a una tradizionale crisi economica (solo tredici anni fa c’erano gli scatoloni portati fuori da Lehman Brothers), oggi c’è una “possibilità di scegliere”. E anche di accedere a nuovi ruoli che un tempo erano geograficamente irraggiungibili.

Grace Lordan, docente di Scienze comportamentali alla London School of Economic, sempre alla Bbc, preferisce in realtà parlare di “big “reshuffling”, un “grande rimpasto”. “Per un po’ vedremo il lavoro semplicemente ondeggiare, perché i dipendenti che cercano lavoro flessibile e ibrido finiranno in aziende che lo offrono”, dice. “Ma le persone che preferiscono l’ufficio a tempo pieno si sposteranno in quelle aziende, dove probabilmente riceveranno un differenziale compensativo: un salario più alto”. Ma non è solo questione di miglior impiego e più stipendio. Può addirittura essere al contrario. Racconta un avvocato londinese: “Ho trascorso del tempo con mia moglie, ho riscoperto una vita sana e ho dormito bene. Ci è voluta questa pausa per rendersi conto di quanto fosse distruttiva la vita in uno dei più grandi studi legali del mondo: sempre reperibile e sotto pressione, lavorando regolarmente oltre 60 ore alla settimana. Quindi, ho smesso”. Si è trasferito in una città più piccola, ha accettato un notevole taglio di stipendio, ma in cambio “sono stato in grado di rivendicare un certo livello di autonomia”. Lo studio legale-chiringuito.

 

Effetti da pandemia o sintomi di un sistema da cambiare?

Sta accadendo anche in Italia, e in misura notevole per un paese bloccato come il nostro. Luigi Manconi lo ha definito su Repubblica un “dato davvero sorprendente”: nei soli tre mesi da aprile a giugno (ed eravamo nella famosa “ripresa”) 485 mila italiani hanno dato le dimissioni volontarie dal posto di lavoro. Secondo Bankitalia, nei primi dieci mesi del 2021 sono 777 mila le cessazioni volontarie di rapporti di lavoro a tempo indeterminato (l’ex mitico posto fisso), 40 mila in più rispetto al pre Covid. E in Italia, il mercato del “nuovo” lavoro non è così frizzante. Ne aveva parlato, tra gli altri, Marco Bentivogli: “Il ‘valore’ del lavoro non corre di pari passo con l’importanza soggettiva del suo senso. Ma quest’ultimo è sempre più importante. Mi valorizza, mi fa crescere, come dice il Papa, mi fa fiorire, mi rende felice? Sono domande che ci si è sempre posti ma che oggi diventano più pressanti, assillanti e definitive”. Il dato entusiasma molti, soprattutto chi guarda il mondo da un oblò di sinistra e lo legge come segnale di crisi di un modello economico e, ancor più, sociale: l’idea che per realizzarsi si debba dedicare la maggior parte della propria vita al lavoro.

La sociologa Francesca Coin ad esempio sull’Essenziale si è sbilanciata a dire che il dato italiano è tanto più significativo in quanto le persone si dimettono “sapendo che lì fuori c’è una disoccupazione giovanile del 29,8 per cento e 2,3 milioni di disoccupati”. Il grande elefante nella stanza sarebbe dunque il rifiuto del lavoro così come ora è inteso. Manconi, che i fenomeni del lavoro capitalista li studia da una vita, è cauto: “Sono dati che vanno manovrati con la massima prudenza. E va subito ricordato, a esempio, che il mercato del lavoro Usa e quello italiano hanno connotati estremamente diversi e non comparabili: e, di conseguenza, assai differenti possono essere le motivazioni della rinuncia. E anche la spiegazione più immediata, legata agli effetti della pandemia, è tutt’altro che esauriente, dal momento che il fenomeno in questione precede la diffusione del Covid”.

E si torna al chiringuito. Al fatto che in Italia, dove il mercato del lavoro è meno dinamico, possono pesare di più altri fattori. Come scrive Manconi, ci sono anche “le ragioni soggettive proprie di una nuova concezione del rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro”. Secondo il sociologo, c’entra anche la pandemia che ha “inciso in profondità sui comportamenti e sulle strutture psichiche” generando processi di insofferenza selettiva. Di fronte al Covid come “il primo incontrollabile attentato alla incolumità di ciascuno di noi”, quantomeno dalla guerra mondiale in poi, due generazioni piene, deriva “un carico di angoscia come mai negli ultimi settantacinque anni”. E allora, perché ammazzarsi a lavorare? “Ne consegue l’incertezza per i valori o, più semplicemente, per le sicurezze sulle quali si fondava la propria vita individuale e sociale. E’ come se questa si fosse accorciata. E la sensazione, pur fantasmatica, della brevità del tempo che ci aspetta induce a chiedersi: ne vale la pena?”.

C’è un altro film, 1991, americano stavolta, che fece molto successo. Una commedia intelligente: Scappo dalla città. La vita, l’amore e le vacche (più rivelatore però il titolo originale, City Slickers: imbroglioni di città). Una commedia più generazionale che altro, ma vi scorreva irresistibile la voglia di rompere la gabbia urbana lavoro-famiglia-relazioni sociali. Per molti italiani il lavoro da remoto e a orari flessibili resta un sogno. Ma il sogno di andarsene è invece di lunga durata. Quando è iniziato? Si potrebbe dire con la generazione che ha oggi più di cinquant’anni. E senza la fatica di doversi trasformare in cowboy come i city slicker. Siamo il paese col miraggio delle aree interne, del borgo più bello d’Italia. Spesso chi lascia il posto fisso lo fa mettendo in conto una personale “decrescita felice”, magari trasferendosi dalle zone più costose (il “south working” esploso durante il lockdown) e sapendo di rinunciare ai vantaggi del “fisso”. Secondo il segretario della Cisl Lombardia, “il rischio è una ripresa che non è in grado di creare occupazione di qualità”.

 

Dalla lotta di classe al fancazzismo il passo è breve

Il chiringuito, e poi? Poi, si scopre che tra i lavori che si iniziano a cercare di meno, rispetto a qualche anno fa, ci sono appunto quelli dell’ospitalità e della ristorazione: non rendono come nei sogni di Masterchef, e si lavora troppo. E un’altra volta appare il fantasma: il rifiuto del lavoro. Che fu un punto di non ritorno degli anni Settanta, del “movimento del ’77” che aveva rottamato i sogni allegri del Sessantotto (“sous les pavés, la plage”) e pure dell’utopia di unire nella lotta studenti e operai se ne fregava. Il rifiuto del lavoro era diventato tutt’intero rifiuto di un modo di vivere, di concepire la vita adulta imperniato su una attività stabile che non è solo fonte di guadagno, ma una sorta di passaporto sociale. Un ruolo attorno a cui si costruisce il resto dell’esistenza. La dimensione affettiva, i figli, le passioni. Il movimento del ’77 ruppe persino col movimento operaio: quei vecchi che si erano battuti “per” il lavoro, un lavoro migliore, faticavano a capire. Sui muri di Bologna comparve un manifesto: “Finalmente il cielo è caduto sulla terra”. “Chi ha detto che non si può dare salario a tutti, aumentare i consumi, i servizi e soprattutto il tempo di vita liberato dal lavoro?”.

Quella stagione è passata, solo uno cieco oserebbe dire che nelle nuove condizioni create cinquant’anni dopo dalla globalizzazione e dalla Gig economy vada tutto bene e non ci sia più necessità di  cambiare. Avendo, per la prima volta nella storia, la possibilità di decidere il modo. Ma dal punto di vista culturale e sociale, nella nostra Italia piccola e di provincia, è difficile anche non vedere il danno che quell’idea del lavoro come una prigione da  cui evadere ha fatto. E’ divertente notare come, per colpa del traduttore automatico, quello che negli States è “Great Resignation” in italiano diventi spesso “grande rassegnazione”, con uno slittamento semantico a suo modo geniale. In Belgio ha avuto successo un video su YouTube intitolato Adults returning to work in cui tocca a una bambina accompagnare per mano il padre che non vuole tornare in ufficio, incoraggiandolo a ritrovare i suoi colleghi. Il lavoro come condanna. E non (più) come un diritto fondamentale non solo materiale ma per la dignità della persona. E nemmeno più, e da mo’, come un mezzo di cui bisogna appropriarsi. Solo un posto da cui darsela a gambe. In questo è chiaro perché la Grande dimissione sia un tema, e un punto di vista, che piace soprattutto a sinistra: conferma che viviamo in una società ingiusta. Bisogna però avere anche il coraggio di invertire il punto di vista. Un conto è cambiare le modalità del lavoro. Un altro è il sottinteso che sia meglio evadere da un’ingiusta condanna. Quel rifiuto inconscio (finita l’ideologia) che nel piccolo mondo antico di quando c’erano i campi e le officine (mondo maschilista e patriarcale, ça va sans dire) si definiva bellamente “fancazzismo”.

Siamo un paese in cui non si può imporre di accettare un lavoro a 50 km di distanza. Siamo un paese in cui due giorni fa si è tenuto uno sciopero flop-generale non per chiedere più lavoro o retribuzione, ma per spostare più tasse su quelli che lavorano e guadagnano (maledetti Imbruttiti). In cui i sindacati del pubblico impiego ce l’hanno con Brunetta perché ha deciso di riportare i dipendenti pubblici in sede. Tre decenni fa Jeremy Rifkin scosse l’occidente col suo famoso libro sulla “Fine del lavoro” in cui profetizzava l’esodo biblico verso la disoccupazione dei lavoratori espulsi dall’industria a causa dell’automatizzazione digitale. E predicava come unica salvezza la riduzione dell’orario di lavoro per consentire  di lavorare un po’ tutti. Non aveva immaginato che, adesso, di lavorare non ha più voglia nessuno.

Prima del Covid i lavori più desiderati dagli italiani erano la moda o la finanza, mondi senza orari e paradisi per workaholic. Oggi è tutto un burnout, e i lavori meno accettati sono quelli in cui il tempo impegnato è molto. In un paese in cui la disoccupazione giovanile al sud è a due cifre. Anche la grande impresa si adegua, l’ultima evoluzione post Covid – lo hanno appena annunciato Accenture e Hewlett Packard – è quella dell’Easy Friday: niente call e riunioni il venerdì pomeriggio, e congedo parentale retribuito al cento per cento. Come scrive Luca Ricolfi nel suo La società signorile di massa, c’è un enorme zoccolo duro di italiani che vive – o sa di poter vivere in futuro – soprattutto di rendite, accontentandosi di occupazioni marginali o instabili. Il grande “reshuffling” degli Stati Uniti potrebbe essere un’ottima chance anche da noi, ma patto che non sia la fuga regressiva verso il chiringuito. Una giovane scrittrice,  Jolanda Di Virgilio, ha scritto qualche tempo fa, centrando il punto: “Abbiamo iniziato a pensare che dal lavoro dipendesse tutto, la realizzazione, il valore personale, l’appagamento. In sintesi: la nostra felicità”. Si riferiva alla sua generazione, i Millennials: “Ma è davvero giusto continuare ad alimentare questo sistema?”. Se quello è il prezzo, viene facile rispondere di no. Ma se si vuole provare a recuperare qualcuno dei punti di produttività (e di ben-essere) che ci separano dal resto del mondo, se si vuole scommettere che il lavoro possa essere anche un modo per rendere migliore il futuro, magari anche sì. Altrimenti, c’è sempre l’opzione Imbruttito.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"