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Caro Landini: che aspetti?

Uno sciopero sprecato

L'Italia ha un problema di bassa crescita economica e bassa produttività sul lavoro

Claudio Cerasa

Manifestanti allegri, adesione flop. Ma Landini & co hanno comunque una chance per sfuggire all’irrilevanza: fare asse con Draghi sui salari e lanciare una sfida alle imprese. Spunti per un’agenda di vera rottura

La giornata di ieri consegna all’Italia l’immagine di un sindacato rissoso, ma vivace, desideroso di mettere la sua forza corporativa al servizio di una battaglia utile per lo sviluppo del nostro paese. Il problema del sindacato, oggi più che mai, non è aggregare gli iscritti in qualche piazza d’Italia, ma è trasferire la sua potenza di fuoco in un qualche progetto in grado di contribuire più alla crescita economica del paese che alla crescita della popolarità di un qualche sindacalista. E dunque, finito lo sciopero, uno sciopero pacifico, ordinato, persino festoso, dove i leader dei sindacati hanno cercato in modo un po’ surreale di attaccare il governo senza attaccare il presidente del Consiglio, il tema per i sindacati resterà. E resterà anche alla luce del fatto che ciò che i sindacati avevano già ottenuto – un tavolo con il governo sul tema delle pensioni – lo avevano conquistato già prima dello sciopero. E dunque il punto è quello: su che fronte concentrare le proprie energie, ora che il sindacato si è già giocato la sua arma più forte, ovvero lo sciopero generale?

La risposta dovrebbe essere semplice e coincide con un’equazione che dovrebbe diventare patrimonio comune nei rapporti tra governo, sindacati dei lavoratori e sindacati degli imprenditori. E l’equazione è questa. L’Italia ha un grave problema di salari (in Italia tra il 2000 e il 2017 gli stipendi reali sono diminuiti dello 0,5 per cento, mentre aumentavano in Francia dello 0,7 per cento e in Germania dell’uno per cento). Il problema dei salari nasce da un combinato disposto tra bassa crescita economica (tra i 19 paesi dell’area euro solo l’Italia e la Grecia devono ancora recuperare, in termini di pil, la situazione pre crisi 2007) e bassa produttività sul lavoro (negli ultimi quindici anni, l’Italia, in termini di produttività, ha perso dieci punti rispetto alla media europea). E come ha segnalato il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, nella sua relazione di maggio i miglioramenti della produttività sono “l’elemento chiave dello sviluppo economico e il fattore più importante che spiega le differenze tra paesi in termini di reddito e pil”.

 

Un sindacato con la testa sulle spalle, oggi, per non sprecare le sue cartucce dovrebbe trasformare la battaglia sui salari nel suo grande e nuovo elemento identitario, non chiedendo come sempre qualcosa in più alla politica (in manovra ci sono otto miliardi di taglio al cuneo fiscale) ma chiedendo finalmente qualcosa in più alle imprese.

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Chiedere qualcosa in più alle imprese, significa questo. Significa mettere gli imprenditori nella condizione di fare un salto in avanti nel futuro lasciando da parte la stagione del nanismo industriale (l’aumento della produttività è direttamente proporzionale alla grandezza delle imprese). Significa mettere gli imprenditori di fronte alla necessità di pagare di più per avere la manodopera che cercano (negli Stati Uniti, nel primo trimestre del 2021, è stato segnato l’aumento degli stipendi più importante degli ultimi quattordici anni e nel 2022 la retribuzione media è previsto che registrerà il più importante aumento mai segnato dal 2008 a oggi, il 3,9 per cento,  secondo i dati della Conference Board, che ha monitorato circa 240 aziende per un totale di 2,4 milioni di lavoratori). Significa costruire un patto con gli imprenditori non per accentrare i contratti collettivi a livello nazionale ma per decentrarli ancora di più legando finalmente l’aumento dei salari alla produttività. Fino a oggi, la Cgil, il sindacato più importante del paese, ha aspettato che la redistribuzione dei salari venisse fatta dallo stato a colpi di leggi (salario minimo e tasse ai ricchi).

Oggi i sindacati hanno di fronte a sé una scelta: autocondannarsi all’irrilevanza corporativa sprecando cartucce preziose come lo sciopero generale per mettere in piazza proposte senza oggetto (secondo fonti di Confindustria, sul fronte delle imprese l’adesione allo sciopero è sotto al 5 per cento a livello nazionale) oppure mettere tutta la propria potenza di fuoco nell’unica battaglia possibile a favore del lavoro. Più produttività, più crescita, più salari. Il futuro dei sindacati e quello dell’Italia, giustamente premiata ieri dall’Economist come paese dell’anno, oggi come non mai si assomigliano come due gocce d’acqua. Caro Landini: che aspetti?

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.