Foto: Erik Mclean

Vero come la fiction

La nuova sfida del fotogiornalismo spiegata dal premio Cartier-Bresson 2021

Luca Fiore

“Una foto cerca di darti la sensazione, mentre la guardi, di essere collegata a un tempo e a un luogo che non sono realmente davanti a te. Ma è solo un pezzo di carta. Ed è questa la finzione che mi attrae”. Parla Carolyn Drake

“La buona fiction ha sicuramente a che fare con la verità. Inventa storie di fantasia, ma capisci perfettamente che ciò che sta comunicando è qualcosa di reale”. Sarebbero parole scontate se uscissero dalla bocca di un romanziere o di un regista, meno se a pronunciarle è Carolyn Drake, fotografa dell’agenzia Magnum, vincitrice del “Prix Henri Cartier-Bresson 2021”. Il riconoscimento della Fondazione dedicata al maestro parigino della fotografia le arriva proprio per la sua ricerca al confine tra documentazione e fiction. Dopo aver viaggiato in Europa e Asia per quasi dieci anni, Drake torna negli Stati Uniti nel 2013 e si trasferisce a Water Valley, una piccola cittadina rurale del Mississippi. Lì lavora al libro Knit Club (TBW, 2021), dedicato a un’enigmatica comunità di donne di cui è entrata a far parte. Le protagoniste sono accomunate da credenze misteriose e dalla passione per i lavori manuali (“to knit” significa “lavorare a maglia”). Liberamente ispirata allo stile letterario di “Mentre morivo” di William Faulkner, mescola nature morte, paesaggi e ritratti domestici tessendo un racconto di fantasia che cerca di mettere in discussione gli stereotipi della rappresentazione della figura femminile. Ora, su proposta di Clément Chéroux, direttore del dipartimento di Fotografia del MoMa, la HCB Foundation l’ha premiata finanziandole un progetto – titolo provvisorio “Centaur” – che continua il lavoro di fiction documentaria di “Knit Club” dal punto di vista della figura maschile per, come dice lei stessa, “esplorare la stessa realtà, lo stesso luogo da un’altra angolazione, cercando una verità forte quanto la finzione”.

 

“Non ho mai pensato alla fotografia come a una ‘prova’ fattuale”, ci spiega alla vigilia del suo talk parigino alla HCB Foundation: “Una foto cerca di darti la sensazione, mentre la guardi, di essere collegata a un tempo e a un luogo che non sono realmente davanti a te. Ma quel che hai di fronte è solo un pezzo di carta. Ed è questo che mi attrae dell’esperienza di guardare le immagini. Non voglio far finta di non accorgermi della finzione, desidero essere consapevole di essa, amo pensare a che cosa è la fotografia di per sé”. Da questo punto di vista, spiega, è un’esperienza simile a quella che si fa quando si vede un film. “È la stessa dinamica che agisce sulla nostra immaginazione. E fotografia e cinema agiscono in modo analogo nel creare stereotipi. Penso al modo diverso con cui sono rappresentati il corpo maschile e quello femminile”. E, da questo punto di vista, la Drake cerca di scardinare questi luoghi comuni. Nel suo “Knit Club”, ad esempio, non solo non ci sono nudi, ma anche i volti delle protagoniste non sono quasi mai visibili. Persino la maternità è rappresentata in maniera non convenzionale, associata all’energia, anche fisica. “Questa operazione può essere fatta anche nella modalità del documentario per immagini, ma non penso che il documentario classico di oggi crei molto pensiero critico”.

Per Drake, la macchina fotografica è quello strano strumento che, da una parte, ti fa percepire un reale senso di connessione con il mondo, dall’altra impedisce una connessione reale, perché media la relazione con la realtà fotografata. “Ma io trovo interessante questa mediazione, perché rende possibili tipi di relazioni con le persone altrimenti impossibili”. Si riferisce, in particolare, al suo modo di procedere nel lavoro in cui, sempre più spesso, si trova a dirigere i propri soggetti nella messa in scena delle immagini. “Questa dinamica mi permette di avere con le persone uno scambio che altrimenti non avrei mai. Sono esperimenti, giochi in cui si prova e si sbaglia. Chiedo la loro opinione, perché sento di avere bisogno di un loro feedback per mettere a fuoco ciò che sto cercando”. Eppure è un processo di messa in scena che, almeno in “Knit Club”, non è mai ostentato. “Nell’editing delle immagini ho deciso di restare sul confine tra fantasia e realtà documentaria. Io vengo dal fotogiornalismo, quella è la mia tradizione e mi sento di portarla avanti. Ma desidero attingere alla storia per portare questo linguaggio verso qualcosa di nuovo”.

 

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