l'intervista

Mostre, pubblico, digitale. L'arte e le istituzioni dopo la pandemia secondo Mario De Simoni

Marianna Rizzini

Le riaperture, il dinamismo, la lezione da trarre, i cambiamenti duraturi. Intervista al presidente e amministratore delegato di Ales-Scuderie del Quirinale

Mario De Simoni è presidente e ad di Ales Spa-Scuderie del Quirinale. Dal suo osservatorio ha visto, nel giro di due anni, l’intera parabola pre e post lockdown: mostre piene, primi contingentamenti, chiusura totale, parziali riaperture, riapertura completa. Ci si chiede se questo periodo abbia svelato soluzioni a problemi preesistenti, e se quella che sembra una nuova energia biunivoca – dal lato del pubblico e da quello delle istituzioni della cultura – possa essere salutata come realtà stabile o debba essere declassata ad “accidente” della pandemia. “Confermo l’impressione di una nuova consapevolezza da parte delle istituzioni e di un grande dinamismo”, dice De Simoni, che nei primi venti giorni di permanenza della mostra “Inferno” alle Scuderie ha visto vendere venticinquemila biglietti.

 

“E’ come se si fosse riusciti a oltrepassare un fossato, come se avessimo imparato a gestire i tempi lunghi che i quasi due anni di pandemia ci hanno costretti a rispettare. Ci sono nuove modalità e nuove scoperte, basti pensare che due anni fa molti neanche sapevano che cosa fosse Zoom. E si creata, nel nostro campo, una sorta di solidarietà internazionale nella rete dei musei: per ‘Inferno’, per esempio, c’è stata grande disponibilità da parte degli 87 prestatori, e per la mostra ‘Raffaello 1520-1483’, rimasta chiusa per mesi durante il primo lockdown, la proroga è stata possibile grazie all’aiuto delle istituzioni museali e dei collezionisti”.

 

Ci sono poi alcune tendenze durature, dice De Simoni, sia per quanto riguarda la fruizione sia a livello di programmazione: “Intanto c’è più richiesta di sicurezza, personale e sanitaria, e si è affermata l’abitudine alla prenotazione e alla turnazione. Registriamo poi aspettative crescenti sul digitale, anche visti i dati rispetto al periodo pre-Covid. Per esempio si registra un 31 per cento in più di visite online ai siti delle istituzioni culturali e un 43 per cento in più ai social media delle stesse - i dati derivano da una recente ricerca dell’istituto americano Impact Experience. Sono riferiti agli Usa ma sono sicuramente indicativi di tendenze generali -, e un aumento dell’attenzione per le newsletter. Si passa più tempo online rispetto a prima, e la lezione per noi è che se il pubblico passa più tempo online l’istituzione deve incontrare il pubblico dove si trova, quindi online. Stessa cosa per l’e-ticketing, in aumento esponenziale”.

 

Ci sono anche cambiamenti per così dire “controintuitivi”, dice De Simoni: “In conseguenza del mutare del modo di viaggiare, con l’abbattimento delle tratte a lungo raggio e degli spostamenti per affari, si sono ridotti anche i viaggi privati di chi, coprendo spesso lunghe distanze per lavoro, accumulava punti premio e poi li ‘reinvestiva’ nel privato. Ed ecco dunque che le istituzioni culturali devono porsi il problema di intercettare un pubblico di prossimità. Con l’abitudine a lavorare da casa, poi, l’uso del tempo è cambiato. Ed è interessante l’impatto di tutto questo sui programmi di fidelizzazione: il tasso di rinnovo degli abbonamenti è drasticamente calato, come se la gente, nell’incertezza del futuro, non volesse investire fino a che esiste un ipotetico, anche se lontano, pericolo di dover fronteggiare altre chiusure. Non per questo si deve cedere alla tentazione di impoverire l’offerta o di offrire sconti come specchietto per le allodole per portare il pubblico poi a un rinnovo degli abbonamenti”. A livello di legislazione e di sistema culturale nazionale, qualcosa può essere cambiato? “A me sembra che il sistema abbia retto”, dice De Simoni, “e che, rispetto a quello che è accaduto nel mondo anglosassone, dove molti musei hanno licenziato, qui, come in Francia, si è cercato di resistere. E i risultati di oggi ci premiano”. 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.