Foto: progetto Personae, compagnia XE

un passo a due

Non solo Paralimpiadi. Anche nella danza l'handicap non è più un limite

Marinella Guatterini

Avere una disabilità e ballare, oggi, è solo un modo diverso d’intendere il palcoscenico. "Anche se siamo diversi come due gocce d’acqua" (Maria Wislawa Anna Szymborska)

Quando Einstein, alla domanda circa la sua nazione di provenienza, rispondeva “razza umana”, non ignorava le differenze, ma le ometteva in un orizzonte più ampio: le includeva e superava tutte. E’ questo il paesaggio che si deve aprire: sia a chi fa delle differenze una discriminazione, sia a chi, per evitare tale forma di apartheid, le differenze le nega. Le 69 medaglie vinte dai nostri campioni alle Paraolimpiadi ci dovrebbero aver insegnato molto. Non sono state la manna dal cielo – mai ottenuta prima d’ora tanta gloria – per dimostrare ai sempre più rantolanti media e social, ossessionati dal Covid-19, che esistono altre malattie e gravi menomazioni. L’immagine di nuotatori senza braccia, atleti in gambe di ferro, fiorettiste in sedia a rotelle non si piega a lacrimucce e pietismo ma regala alla diversità il colore rosso della forza, dell’impegno, della sfida ai propri limiti.

 

Solo nello sport? Nient’affatto. Da anni ormai in Italia, in Europa e nel mondo prolificano gruppi, compagnie, centri di performer e “danzattori” diversamente abili che, grazie al tenace impegno di terapeuti, coreografi e registi, si sono incuneati nell’ambito della danza contemporanea. Proprio qui la bellezza non coincide più solo nell’esposizione di corpi perfetti, di invidiabili forme senza sbavature, ma semmai in una libertà espressiva, che consente l’introduzione pura e trasfigurata di handicap, di limiti fisici e mentali. Anzi, oggi più che mai, è in atto un’autentica valorizzazione “estetica” del diversamente abile, una messa in luce del suo quoziente di sofferenza, emarginazione ma anche leggerezza che di per sé è portavoce di una nuova uguaglianza tra gli esseri umani. Ci sentiamo autorizzati a contraddire quanti ancora osservano che il teatro o qualsiasi altra manifestazione artistica con portatori di handicap abbia una gittata solo e squisitamente terapeutica (anche per il pubblico), escludendo ogni addendum desiderante e piacevole in senso lato.

Già all’inizio del secolo, Rudolf Laban, il maggior teorico della danza libera, racchiudeva in una importantissima affermazione – “ogni uomo è un danzatore” – gli esiti futuri di una ricerca tutta tesa a valorizzare le più svariate e personali forme dell’interiorità. Confidando nell’universalità della danza come esperienza creativa alla portata di qualsiasi individuo, Laban profetizzava, anche se indirettamente, quelle sperimentazioni particolari e ormai molteplici, capaci di invertire il processo “della terapia in cammino verso l’arte”, in “arte che di per sé, e quasi inconsapevolmente diviene terapeutica”. Gli anni Sessanta del secolo scorso, che tra l’altro coincidono con la nascita delle Paraolimpiadi, segnarono al riguardo una svolta irreversibile; tra i tanti esempi possibili, resta eclatante l’avventura esistenziale e artistica di Robert Wilson, regista/architetto texano, oggi quasi ottantenne. Dopo una lunga e accurata osservazione del modo di percepire il mondo solo attraverso gli eventi visivi, i segni, i gesti di Raymond Andrews, tredicenne sordomuto, Wilson realizzò, nel 1971, “The Deafman Glance” (Lo sguardo del sordo), il suo primo lavoro teatrale, in sette ore, quattro atti e completamente silenzioso.

Con Christopher Knowles, altro tredicenne ma autistico, Wilson realizzò non solo lo sterminato “The Life and Times of Joseph Stalin” (La vita e i tempi di Joseph Stalin, 1973) ma soprattutto “Einstein on the Beach” (Einstein sulla spiaggia). In quest’opera di riferimento dell’era postmoderna, che debuttò ad Avignone nel 1976, Knowles avvicinò il suo orizzonte esistenziale fatto di numeri, ritmi, ripetizioni, alla realtà scenica “più vera del vero”, e anche grazie a lui la parola “musicale” divenne parte integrante nel teatro vissuto, lontano dalla rappresentazione, e che attraverso fantasia, inconscio e diversa abilità del pensiero, ridona alla vita stessa lo slancio energico di una nuova bellezza e speranza. In questi e in altri straordinari eventi d’esordio di una carriera tuttora tentacolare, Wilson elaborò dapprima su di sé, poi sui suoi interpreti, una sorta di slow motion – movimento catatonico e possiamo pronunciarlo senza preclusioni, “autistico” – che divenne la cifra di tanta “Post Modern Dance” statunitense, e non solo. Da parte di Wilson non si trattò per nulla di uno sfruttamento dei portatori di handicap per l’invenzione di nuove prassi sceniche, bensì di una fascinazione: della scoperta di anomalie tanto più pregnanti rispetto alla cosiddetta normalità percettiva, ma anche dinamica e cognitiva.

 

Guarire con l’arte non fu certo la prima prerogativa della compagnia inglese CandoCo (abbreviazione di Can Do Company, ossia “compagnia del si può fare”). Nata nel 1991 dalla fertile intuizione di Celeste Dandeker e Adam Benjamin, diede subito in pasto ballerini in sedie a rotelle, in stampelle o con vistose menomazioni ad artisti e coreografi di fama. Per questo gruppo, un tempo agglutinato attorno al da poco scomparso David Toole, danzatore britannico senza gambe, noto per la sua esibizione alle Paraolimpiadi del 2012, comparso anche in taluni film di Sally Potter e Lloyd Newson, vale la massima di Oscar Wilde, “solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze”. L’handicap nella CandoCo è infatti ostentatamente esibito ma i suoi limiti – come si faceva a danzare senza gambe, essendo, come nel caso di Toole, un corpo-tronco? – annegano nel loro stesso superamento. Sempre in tournée prima del Covid-19, l’ultimo passaggio del gruppo alla Bbc ha ottenuto un’audience di oltre un milione di spettatori. Anche in Italia, la compagnia inglese si è rivelata capace, a ogni vibrante recita, di coinvolgere un pubblico incredulo, sgomento, emotivamente scosso. Scuotere? Non è questa la funzione del teatro?

Altra formazione anomala ma dal quoziente artistico altissimo è la francese Oiseau-Mouche, troupe permanente a Roubaix, di ventitré attori con varie disabilità mentali. Nata nel 1978, Oiseau-Mouche si è disciolta ma è da citare: è stata la pioniera europea del settore e in trentatré anni di attività ha superato i suoi originali obiettivi, non solo passando dall’ambito dilettantesco a quello professionale, ma anche dall’estetica del teatro del gesto a quello della parola. Come nei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello, per la regia di Antonio Viganò e la coreografia di Julie Stanzak, una pièce dalle molte recite nel mondo e dai non meno numerosi premi. Con questi autentici campioni della scena e poi anche con il Teatro La Ribalta, compagnia sempre composta da diversamente abili, formata dallo stesso Viganò, la Stanzak, una delle maggiori interpreti del Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch, utilizzò anche il famoso “metodo” messo a punto dalla compianta coreografa tedesca già negli anni Settanta. La prassi, forse nota, perché adottata da successori ed epigoni della celebrata artista, consiste nel porgere delle domande all’interprete e nel ricevere dallo stesso delle risposte in termini fisici di movimento, o parola. Il teatrodanza della Bausch esclude il testo: dall’abile e ispirata mescolanza delle risposte e dalle improvvisazioni nate dalle medesime, nascevano i vari pezzi (gli Stücke) di quella composita e prismatica Commedia umana che è l’intero teatrodanza a firma Bausch.

Pina magnificò nel suo lavoro i contorni della persona danzante, escludendo la categoria solo professionale del “ballerino”. Confermando il leitmotiv di Laban, la geniale coreografa ci ha garantito che il teatro è fatto di persone che si muovono e ballano. I limiti visibili e invisibili appartengono a ognuno di loro come a ognuno di noi…

Curiosamente nell’esperienza degli Oiseau Mouche, il metodo Bausch risultava, almeno negli spettacoli co-diretti dalla Stanzak, ribaltato rispetto al suo corso abituale. Se, infatti, i normodotati, quando sollecitati da domande “alla Bausch”, portavano a galla e lasciavano affiorare la loro “anormalità”, le loro idiosincrasie, le fantasie riposte, i difetti inaccettabili, i diversamente abili puntavano, al contrario, a esaltare la “normalità dalla loro anormalità”, chiedendo di essere accettati. Il risultato, straordinario, ottenuto ad esempio dalla pièce pirandelliana, è che gli spettatori non si avvedevano di alcun handicap, non notavano alcuna diversità nei performer se non, ma poteva anche non accadere, quando si dirigevano in proscenio per raccogliere gli applausi. Un simile risultato ci induce a pensare, proprio seguendo l’esemplare modello degli Oiseau-Mouche, che il lavoro con portatori di handicap, siano essi fisici, mentali o altro, debba essere fortemente supportato e sostenuto da aiuti terapeutici esterni, come l’illustre danzaterapeuta argentina Maria Fux, oggi quasi centenaria. Ma talvolta non è così, come insegna l’esperienza italiana del regista Pippo del Bono e del disabile Bobò, inserito già nel 1997 nello spettacolo “Barboni”.

 

Da sempre interessato all’incontro con persone provenienti dai margini della società, come recita la sua biografia, Del Bono adottò Bobò (pseudonimo di Vincenzo Cannavacciuolo, scomparso nel 2019), piccolo uomo sordomuto e analfabeta, dopo l’incontro avvenuto, in occasione di un laboratorio teatrale, nel manicomio di Aversa. Rinchiuso in quel luogo per 45 anni, Bobò ritrovò una sua attiva dimensione sociale nella collettività del teatro; divenne a tutti gli effetti un attore nella compagnia del regista ligure, che in lui riconobbe speciali capacità gestuali ed espressive, oltreché totale assenza di retorica, caratteristica di sicuro fascino nella presenza scenica di molti diversamente abili. Altra ancora, e non esecrabile, a nostro avviso, è l’esperienza di chi si avvale della diversità senza ulteriori sviluppi.

Il meraviglioso Agamennone nell’“Orestea” (1995) della Socìetas Raffaello Sanzio era un ragazzo down, portatore di un tipo di fisicità adatta alla sanguigna e crudele epopea (sulla scia del Teatro della crudeltà di Antonin Artaud), messa in scena dall’allora coeso gruppo di Cesena. Segno che nel Vecchio continente era già tornato a fermentare il lascito dei grandi innovatori dell’inizio del secolo scorso, i quali sostenevano che non può esserci un teatro nuovo senza “un uomo nuovo”. La rigenerazione del teatro cui vorticosamente assistiamo non è propriamente dei suoi specifici, ad esempio della danza, delle sue tecniche, dei suoi metodi, del teatro fisico e no, ma molto spesso di chi ne è creatore-interprete in scena.

Ribaltando la prospettiva e la traiettoria della nostra analisi, potremmo persino aggiungere che semmai oggi è lo spettatore a dover essere aiutato e salvato dai suoi eventuali limiti. E se tali ostacoli sembrano essere superati nell’ambito della danza contemporanea e dei suoi per lo più giovani fan, non così facile è ancora scalfire le resistenze del pubblico generico, senza preferenze di sorta. Nel nostro paese vantiamo un discreto numero di artisti della scena, molto simili ai campioni delle Paraolimpiadi. Il cervello è saldo: il corpo va dove va. Citiamo un esempio per tutti: l’intelligente e ormai anche drammaturga Chiara Bersani – una folta aureola di capelli, braccia lunghe, mani ad artiglio e busto formato mignon – protagonista di spettacoli rimarchevoli, come “My Girl” da “Madame Bovary” di Alessandro Sciarroni, ma anche di solitarie pièce in cui sprigiona la sua malia più unica che rara.

 

Ma che succede quando il corpo può essere saldo ma il cervello va dove vuole? In questo caso, i sostegni istituzionali sono pochi, a meno che non si verifichino le condizioni di magnifiche comunità strette attorno ai loro adulti, rimasti ragazzi a causa di malattie mentali. E’ il caso di San Casciano Val di Pensa in provincia di Firenze: qui da ventun anni i sindaci che si sono succeduti, gli assessori alle politiche per lo sviluppo culturale, ma anche i responsabili di cultura e ricerca regionali, sostengono un gruppo e un progetto che si intitola Personae e che forse non ha eguali in Italia.

Sette spettacoli, dal 2004 al 2019, data di “C’è un tempo”, l’ultimo lavoro tratto dal “Qoelet” o “Ecclesiaste” – tournée, una scansione di prove che non si è interrotta neppure durante la pandemia, grazie al lavoro in Dad, due pubblicazioni e un entusiasmo talmente crescente da indurre la creazione di nuovi laboratori per includere leve più giovani. Ma i nove performer di Personae ormai non possono neppure immaginare la loro vita senza Julie Anne Anzilotti, la guida coreografica, anche a capo di Xe, la sua compagnia di professionisti, che con l’aiuto di danzatori divenuti pure terapeuti, di tecnici e scenografi di fiducia, ha saputo poco alla volta vincere perplessità e resistenze di genitori e cittadini creando un’oasi di non facile coesione e amicizia tra persone che il luogo comune non può che definire “fuori di testa”. Tra di loro c’è chi è convinto di essere Napoleone Bonaparte o Vittorio Emanuele di Savoia. Chi tenta di continuo la fuga dalla scena, ma poi ama scrivere su enormi cartelloni parole che sembrano in libertà ma sono inni alla pace e alla natura; chi assicura, nonostante il corpo sia incerto e tribolato, di avere mille fidanzati sparsi per tutta Italia e ogni volta si imbelletta e si fa vestire di abiti sgargianti. C’è chi predilige il proscenio e per lui l’essere presentatore è una conquista e il microfono un alleato che esalta il suo protagonismo. E ancora chi sprigiona serenità e allegria e si muove con garbo, senza sgarrare un passo e chi invece ha il volto tirato in una smorfia che non si sa se sia di disprezzo o di rabbia, pronta a sciogliersi come un gelato in bocca; e chi sprizza, saltando e correndo con una tale energia da richiedere assolutamente che si applichi all’uso degli strumenti musicali, a cui si accosta anche per la composizione.

Guai però a pensare che gli spettacoli siano calchi manicomiali tenuti a freno. C’è rigore e obbedienza nel lungo lavoro preparatorio delle messinscene, nella respirazione, nell’esercizio della voce, nelle improvvisazioni che finora si sono aggrappate a due macro-temi, l’amore e il tempo, con esiti coreografici che coniugano la naturalezza dei gesti all’artificio di una congrua armonia dissonante.  Infine, sono toccanti le parole dei protagonisti a proposito dei due temi in questione. Questi performer sono anche poeti, mai troppo lontani dalla realtà in cui vivono, sanno delle guerre a cui contrappongono fiori, “cose belle” e inviti “a non scrivere le parolacce sui muri”. Sognano l’amore alato con “musica lirica spumeggiante con uno champagne in mano, rullini di foto vecchie”, sinché “passa un vassoio con il caffè”.

 

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