AP Photo/Emilio Morenatti 

Prendere la vita per le corna

Giuseppe Pastore

Disabili dalla nascita, da quando erano bambini o dal giorno di un  incidente. Non sono andati a Tokyo 2020 per lavare la coscienza di nessuno ma per correre, nuotare, tirare di scherma. Atleti e sfide delle Paralimpiadi. Venti storie

Così abusata da diventare luogo comune, quindi vuota e in definitiva orrenda, la parola “resilienza” si riscatta e trova la sua vera ragion d’essere nelle facce, nei corpi e nelle vicende degli atleti paralimpici. Pesantemente refrattari a ogni forma di pietismo, ripugnati dall’ipocrita desiderio di additarli a modelli all’indirizzo di chissà chi, come se le loro vite esistessero solo in funzione della “gente normale”, ci limitiamo ad abbozzare venti ritrattini di splendidi esseri umani che conoscono e sperimentano la fatica un po’ meglio di noi.


Zakia Khudadadi e Hossain Rasouli (Afghanistan)
Taekwondo, Atletica

Diventare la prima donna afghana a partecipare a una Paralimpiade è già aspirazione complicata: figuriamoci se la cosa coincide con il ritorno al potere di un gruppo di fondamentalisti islamici che verso le donne non nutre pensieri esattamente progressisti. Ma lo sport fa miracoli e Zakia Khudadadi è riuscita ad arrivare a Tokyo in compagnia dell’unico altro atleta afghano in competizione, il centometrista Hossain Rasouli, privo della mano sinistra portatagli via da una mina antiuomo. Fino a pochi giorni fa sembrava che i due dovessero rinunciare a Tokyo e durante la cerimonia d’apertura la bandiera del loro paese aveva tristemente sfilato senza alcun atleta dietro, ma un’operazione in extremis coordinata dai militari australiani di stanza a Kabul ha fatto in modo che Zakia e Hossain arrivassero a Tokyo dopo una lunga trasvolata che li ha portati prima a Dubai e poi a Parigi, dove hanno continuato ad allenarsi in un centro sportivo statale. Khudadadi è stata eliminata ai ripescaggi della sua gara di taekwondo, categoria -49 kg. Arrivato in ritardo per gareggiare nella sua specialità, Rasouli ha dovuto ripiegare sul salto in lungo potendosi allenare solo novanta minuti in tutto, la sera precedente: ha terminato all’ultimo posto ma con la soddisfazione del suo record personale, 4 metri e 46, esattamente tre metri in meno del cubano Cervantes medaglia d’oro.

 

Columba Blango (Gran Bretagna) 
Atletica, 400 metri

Da ora nella storia dell’atletica leggera ci sono due Columba Blango. Il primo è un decathleta della Sierra Leone che partecipò ai Giochi di Mosca 1980, terminando sedicesimo e ultimo tra gli atleti in gara fino all’ultima prova, in un concorso dominato dal grande Daley Thompson. Poi il buon Columba si è trasferito in Inghilterra, ha addirittura intrapreso una brillante carriera politica fino a diventare sindaco del sobborgo londinese di Southwark e infine è arrivato suo figlio, Columba Blango junior, che a Tokyo ha gareggiato nei 400 metri categoria T20, riservata agli atleti con disabilità intellettuali. Appena nato, ha accusato numerosi coaguli di sangue al cervello che lo hanno lasciato in terapia intensiva per quattro settimane; è sopravvissuto, ma ha iniziato a parlare solo a sei anni. Oggi frequenta Scienze del turismo all’Università di Greenwich e fa il commesso da Primark, famosa catena di negozi d’abbigliamento. A Tokyo ha vinto la medaglia di bronzo con una grande rimonta finale che forse l’ha lasciato col rimpianto che avrebbe potuto fare di più. Ha concluso “il giro della morte” in 47”81, cinque secondi e mezzo più veloce di suo padre che a Mosca aveva corso i 400 in 53”48. E persino due decimi più veloce del 48”01 di Daley Thompson.

 

Ibrahim Elhusseiny Hamadtou (Egitto)
Tennis tavolo

Viviamo nell’epoca dell’immagine a effetto, delle “pic of the day” che campeggiano gigantesche nei siti come manifesti pubblicitari di Oliviero Toscani, che colpiscono, choccano, commuovono, costringono al pensiero. Purtroppo con le Paralimpiadi l’effettaccio è sempre dietro l’angolo. Così ci limiteremo a una descrizione il più asciutta e britannica possibile degli sforzi e dei gesti tecnici di Ibrahim Elhusseiny Hamadtou, pongista egiziano di 48 anni che ha perso entrambe le braccia in un incidente ferroviario quando ne aveva dieci. “Nel nostro villaggio potevamo giocare solo a calcio e a ping pong”, ha detto alla Cnn, “nelle mie condizioni sarebbe stato logico praticare il primo, ma scelsi il secondo come sfida personale”. Regge con la bocca il manico della racchetta – soluzione che ha preferito, tanti anni fa, a quella di stringere la racchetta sotto l’ascella – e lancia la pallina in un alto campanile col piede destro, colpendola poi al volo nella sua parabola discendente. Inserito in un girone durissimo, è stato eliminato dal coreano Park e dal cinese Chen.

 

Anastasia Pagonis (Usa)
Nuoto

Della retinopatia autoimmune si sa ancora poco, non si ha nemmeno certezza che sia una malattia genetica. Semplicemente, succede. Così ad Anastasia Pagonis, bambina di 11 anni di Garden City, New York, è accaduto un giorno di iniziare a vederci sempre meno, fino a perdere completamente la vista a 14 anni. Ha dunque fatto in tempo a conoscere forme, dimensioni e colori, prima dell’allucinante sensazione di non poterli vedere mai più. Il nuoto l’ha tirata fuori da otto mesi sprofondati nella depressione più nera, e non solo in senso figurato. Ha un cane guida e un allenatore da cui riceve a ogni virata il colpetto sulla testa con il “tapper”, un aggeggio di spugna che le segnala che la corsia è finita. A Tokyo ha vinto l’oro nei 400 stile libero e il bronzo nei 200 misti. A 17 anni ha due milioni di follower su TikTok alcuni dei quali continuano a ripeterle che, in quanto cieca, non dovrebbe poter vestirsi bene, truccarsi, sistemarsi i capelli... Con fuoriclasse del calibro di Simone Biles e Naomi Osaka, è una delle portavoce di quella filosofia che si riassume nella frase “It’s ok not to be ok”. Nell’epoca della perfezione a tutti i costi, una sentenza dirompente.

 

Herbert Aceituno (El Salvador)
Sollevamento pesi

Leggiamo qui le gesta di atleti paralimpici britannici, statunitensi, europei, appartenenti al cosiddetto Primo mondo. E nel Salvador, come vanno le cose? Può spiegarlo Herbert Aceituno, il primo salvadoregno a vincere una medaglia paralimpica, nel sollevamento pesi categoria 59 kg. Aceituno è affetto fin dalla nascita da macrocefalia e acondroplasia, una patologia che blocca la crescita di braccia e gambe: chi ne soffre spesso non supera i tre mesi di vita, ed è proprio questo che i medici dissero a sua madre. 36 anni dopo è diventato un eroe nazionale mettendo a frutto in modo strabiliante un consiglio di buon senso di un suo amico di liceo, avvilito quanto lui dal fatto che Herbert venisse regolarmente bullizzato per il suo aspetto: perché non fai un po’ di palestra? Accolto all’aeroporto dalla madre Marta (suo padre Gilberto è scomparso l’anno scorso) e dai vertici della sua federazione, ha citato – chissà quanto inconsapevolmente – Peter Sellers alla fine di Oltre il giardino: “La disabilità è uno stato mentale”. “Credendoci davvero”, ha continuato, “possiamo abbattere tutte le barriere”, ed è bello notare che quando gli atleti sono felici, a qualunque latitudine, in qualunque condizione essi si trovino, dicono tutti le stesse cose.

 

Lora Fachie e Neil Fachie (Gran Bretagna)
Ciclismo su pista

La storia dell’olimpismo è piena di momenti catartici in cui un uomo e una donna hanno suggellato la loro unione raggiungendo quasi all’unisono il miglior risultato sportivo della loro vita: il caso più famoso è quello del cecoslovacco Emil Zatopek, “la locomotiva umana” che a Helsinki 1952 vinse la maratona nello stesso giorno in cui la sua futura moglie Dana Ingrova primeggiava nel giavellotto. I britannici Lora e Neil Fachie hanno vissuto lo stesso perfect day lo scorso 28 agosto, trionfando rispettivamente nell’inseguimento individuale e nei 1000 metri sulla pista di Tokyo: lui aveva già vinto a Londra, lei a Rio, ma insieme mai. Lui nato ad Aberdeen e affetto da retinite pigmentosa diagnosticata a cinque anni, lei nata a Liverpool gravemente ipovedente e in grado appena di distinguere luce e buio. Si sono aiutati a esplorare le tenebre, con approccio opposto alla disabilità: lui timoroso tanto da tenere nascosta la sua malattia agli amici per tutta l’infanzia, lei incoraggiata dai genitori ad andare a ritirare da sola la posta nella cassetta in fondo alla via. Si sono incontrati a metà strada.

 

Melissa Stockwell (Usa)
Triathlon

Melissa Stockwell ricorda molto bene il giorno in cui è diventata ottimista. Era il 13 aprile 2004, aveva 24 anni e si trovava a Baghdad in qualità di primo tenente dell’esercito americano, quando una roadside bomb fece saltare in aria il convoglio militare su cui stava viaggiando. I medici riuscirono a salvarle la vita ma non la gamba sinistra, amputata sopra il ginocchio. “In ospedale mi guardai intorno, vidi altri soldati messi ancora peggio di me e pensai: wow, sono stata fortunata”. La vita è una questione di punti di vista. Un anno, svariate infezioni e svariate operazioni dopo, viene dimessa dall’ospedale e può tornare alla luce del sole. Due volte campionessa del mondo di para-triathlon, è stata bronzo a Rio e a Tokyo ha portato la bandiera stars & stripes nella cerimonia d’apertura. Un mese prima dei Giochi era stata investita in bicicletta, riportando due fratture vertebrali e pesanti ferite alla zona pelvica. Ciononostante, è riuscita ad arrivare quinta. Siamo abbastanza sicuri che avrà pensato: ehi, poteva andarmi peggio.

 

McKenna Geer (Usa)
Tiro a segno

“Vostra figlia, beh, non camminerà mai. Forse non parlerà mai, non imparerà mai a leggere”. L’incubo di ogni genitore diventa realtà per i signori Robert e Cari Dahl. A salvare la vita di McKenna, nata con un’amioplasia congenita alla mano sinistra e a entrambi i piedi che impedisce ai muscoli di svilupparsi correttamente, non l’atletica né il nuoto né il basket in carrozzina bensì il tiro a segno scoperto all’età di 12 anni: a un campus estivo riservato a ragazzi disabili esibisce un talento naturale così sfacciato che il direttore del campus chiede immediatamente di approfondire la faccenda. Rispetto alle altre storie, la sua è quella di una “normale” disabilità (per quanto possa essere normale sparare nel pieno centro di un minuscolo bersaglio a 50 metri di distanza senza l’uso di una mano), priva di atti di eroismo o prodezze da eroi dei fumetti, che banalizza l’handicap, lo rende irrilevante. Vi avevamo avvertito del rischio costante di pietismo, che questi atleti vengano manipolati e sfruttati come spauracchio da agitare a quelli che “si lamentano sempre”. Invece no, non sono qui per lavare la coscienza di nessuno: sono qui per correre, nuotare, tirare di scherma e sparare con la carabina.

 

Sam Grewe (Usa)
Atletica

“Caro Sam, piacere di conoscerti. Sono Masaki Kando e lavoro per il Comitato organizzatore di Tokyo 2020. Sono anche il papà di Haruki (13 anni). Mio figlio soffre di osteosarcoma al ginocchio destro da tre anni e ha dovuto subire un intervento di chirurgia plastica rotazionale. Anche se conoscevo i dettagli di quest’operazione, ero molto nervoso perché qui in Giappone non ci sono molte informazioni su ciò che succederà dopo. Poi abbiamo scoperto te, il campione del mondo di salto in alto! Ci hai dato grande coraggio e te ne siamo grati. Avevamo comprato i biglietti per la tua finale, ma purtroppo si gareggia a porte chiuse. Mio figlio ti guarderà in tv, faremo tutti il tifo per te. In bocca al lupo! Masaki Kando”.

(Lettera ricevuta da Sam Grewe, pochi minuti prima di gareggiare nella finale di salto in alto – e vincere l’oro. A 13 anni gli fu diagnosticato un osteosarcoma al ginocchio destro e gli fu amputata una porzione della parte inferiore della gamba, in modo che la caviglia fungesse da rotula).

 

Abbas Karimi (rifugiato)
Nuoto

Anche le Paralimpiadi hanno il loro team di rifugiati politici, organizzato e curato dal Cio. Il più forte e valoroso è il nuotatore afghano Abbas Karimi, nato senza le braccia e per questo discriminato e fuggito in Turchia, dove ha trascorso quattro anni senza documenti prima di essere contattato da Mike Ives, un ex allenatore di lotta che si stava dedicando alla causa degli atleti rifugiati. Ora vive e si allena in un centro d’eccellenza dello sport americano come Fort Lauderdale, in Florida. Ha sempre vissuto l’acqua come il suo vero elemento naturale fin dall’adolescenza a Kabul. A Tokyo è finito ottavo nella finale dei 50 farfalla, ma sulla distanza vanta comunque un argento mondiale ai Mondiali del 2017 a Città del Messico.

 

Quel giorno, sul podio, gli tornò in mente una frase che gli disse suo padre quand’era bambino: “Dal giorno in cui sei nato, ho capito che sarai speciale. Di tutti i miei figli e tutte le mie figlie, sarai l’unico che porterà il mio nome in cima al mondo”. 

 

Beatrice Vio (Italia)
Scherma

Di Beatrice Maria Adelaide Marzia Vio sappiamo già quasi tutto, per merito suo. E’ così popolare che ha anche un piccolo stuolo di hater sgangherati, probabilmente dei bot, che la prendono a male parole sui social. Della sua meningite a undici anni, dei suoi fallimentari tentativi di suicidio gettandosi dal letto, del provocatorio consiglio-sfida paterno (“Buttati dalla finestra, se ce la fai!”) abbiamo letto più volte. Il Cio ha eletto la sua sfrenata esultanza a Rio 2016 come uno dei momenti simbolo dell’edizione, ma a Tokyo è riuscita ad andare anche oltre, scollinando oltre un’infezione da stafilococco rimediata ad aprile, con diagnosi impegnativa: amputazione di ciò che resta del braccio sinistro entro due settimane, oppure morte. Lo scriviamo con toni quasi da tragicommedia perché è lei che ce li incoraggia, per esempio nel divertito particolare del primario di Traumatologia che l’ha presa in cura, dal beffardo nome di Riccardo Accetta. Da anni racconta la sua vita con una chiarezza e una leggiadria sconcertanti, che ci fa essere profondamente invidiosi di lei.

 

Katia Aere (Italia)
Handbike

Stiamo raccontando storie di atleti che hanno scoperto la propria malattia invalidante appena nati, o comunque da bambini, o al massimo da adolescenti. Il destino ha riservato alla friulana Katia Aere uno scherzo ancora più atroce, a 32 anni, nascosto dietro una parola insopportabilmente lunga: dermatopolimiosite autoimmune. Un assalto improvviso e devastante che le atrofizza i muscoli e inoltre, cinque anni dopo, le compromette anche la capacità di respirare. Com’è possibile che a 41 anni trovi allora la forza di dedicarsi anima e corpo allo sport, guardando in televisione le Paralimpiadi di Londra? Le storie di questi atleti hanno una componente di mistero e follia a cui la ragione non può accedere. Sceglie il nuoto, riesce ad andare oltre un’assurda sospensione per doping inflittale a causa dei farmaci che è costretta a prendere per restare viva, poi passa all’handbike ispirata da Alex Zanardi, entrando a far parte del suo progetto “Obiettivo 3” nel 2018. Lo scorso 1° settembre, quattro giorni dopo il suo cinquantesimo (!) compleanno, ha vinto un’incredibile medaglia di bronzo nella categoria H5.

 

Monica Contrafatto (Italia)
Atletica

“Anteponendo l’incolumità dei colleghi alla propria, dopo l’arrivo di una prima bomba da mortaio faceva sgomberare la propria tenda, indicando ai propri commilitoni di recarsi nei bunker e salvando loro la vita. Mentre si portava al proprio mezzo per attuare le azioni di contrasto, rimaneva gravemente ferita dall’esplosione di un’ulteriore granata che colpiva la stessa area e, malgrado il lancinante dolore, con spiccato coraggio rifiutava le prime cure e incitava i propri commilitoni alla reazione, prima di accasciarsi stremata”. Il 24 marzo 2012 la siciliana Monica Contrafatto, caporalmaggiore dell’Esercito, rimase ferita alla gamba destra durante un attacco talebano nella valle del Gulistan, Afghanistan, in cui perse la vita il suo commilitone Michele Silvestri, sergente del Genio Guastatori. “Pensavo si trattasse solo di un graffio: mentre ero ricoverata scoprii che avevo perso una gamba e cinquanta centimetri d’intestino”. E’ stata la prima donna soldato a ricevere la Medaglia d’Oro al valor militare, con la motivazione che avete letto all’inizio. Che l’opera di quei mesi sia stata spazzata via dai recentissimi fatti è un’aggiunta di amarezza che la spinge ad andare sempre più avanti e sempre più veloce, come si conviene a una centometrista bronzo paralimpico a Rio 2016. “Ma poi voglio tornare lì, ho lasciato il lavoro a metà. A costo di perdere anche la gamba sinistra”. Intanto a Tokyo, sabato scorso, con il suo bronzo ha completato la storica tripletta azzurra nei 100 metri, con l’oro ad Ambra Sabatini (14”11, nuovo record del mondo) e l’argento a Martina Caironi.

Emily Tapp (Australia)
Triathlon
Nessuno si salva da solo. L’angelo custode dell’australiana Emily Tapp è italiano e si chiama Fabrizio Andreoni. Tecnicamente, le fa da “handler”: ma facciamo un passo indietro. A vent’anni Emily è una talentuosa cavallerizza nella pericolosa specialità del campdrafting, diffusa solo in Australia: si tratta di gareggiare su terreni irregolari e accidentati. Una caduta da cavallo le lesiona la spina dorsale e la rende paraplegica. L’avrete capito, questa è gente che non si scoraggia facilmente: tre anni dopo torna in pista con il para-triathlon, che nella versione paralimpica è composto da 750 metri di nuoto, 20 chilometri di handbike e 5 chilometri in carrozzina. Tra una frazione e l’altra entra in scena il suo “handler”: Andreoni si occupa di cambiarle la tuta e di trasportarla dalla bici alla sedia a rotelle nel più breve tempo possibile, come il più collaudato meccanico di Formula 1. Ma dopo il ritiro a Rio 2016 e due titoli mondiali consecutivi nel 2017 e 2018, la coppia ha fallito ancora l’appuntamento più atteso: Emily si è schiantata contro una barriera nei primi chilometri della frazione di handbike, mentre era al terzo posto. Ci riproverà.

 

Kate O’Brien (Canada)
Ciclismo su pista

Tanti ottimi atleti paralimpici hanno un passato da atleti olimpici: è il caso della nostra Assunta Legnante, oro nel lancio del peso agli Europei indoor del 2007 e oro nella stessa specialità paralimpica a Rio dopo essere diventata cieca a causa di un glaucoma che si portava dietro dalla nascita. Colpisce più delle altre la vicenda della canadese Kate O’Brien, ottima ciclista su pista che ha partecipato nel keirin a Rio 2016. Un anno dopo, un disastroso incidente in allenamento a Calgary – un cedimento della ruota posteriore la portò a scontrarsi con la bici elettrica che le faceva da traino – le ha portato via la capacità di camminare, parlare e respirare senza assistenza: ai seri danni cerebrali si è aggiunta nel 2019 una diagnosi di epilessia. “Mi precipitai da lei con l’idea di aiutare sua madre nelle pratiche di donazione organi”, ha ricordato la sua collega e fidanzata Meghan Grant. Ce ne sarebbe abbastanza per odiare alla follia lo sport che l’ha resa invalida: invece lei un anno dopo è tornata in pista, ha infranto un paio di record del mondo e a Tokyo, una settimana fa, ha vinto una medaglia d’argento.

 

Karolina Pelendritou (Cipro)
Nuoto

Il soprannome riportato sul sito delle Paralimpiadi, “Princess of the Pool”, dice tutto: Karolina è una star. E’ l’unica atleta della storia di Cipro ad aver vinto un oro olimpico o paralimpico, ma questo è il meno. E’ una donna bella, vincente e di successo. E’ l’unica personalità cipriota a essere finita su un francobollo mentre era ancora viva, addirittura a 18 anni, dopo il suo primo oro ad Atene 2004; è sposata con un giornalista sportivo greco e anche lei coltiva questa passione insieme alla moda, su un account Instagram curatissimo in cui non disdegna che gli altri facciano ciò che a lei è negato: farsi guardare. E’ priva del 97 per cento della visione centrale a causa di un danneggiamento irreparabile della retina iniziato all’età di 10 anni, problema che non le ha impedito di passare alla storia del suo paese anche a Tokyo a 35 anni suonati, vincendo i 100 rana categoria SB11 con il nuovo record del mondo, nonostante nel 2012 i medici le avessero detto che avrebbe dovuto smetterla con il nuoto. Lo scorso 1° settembre, ascoltando quell’inno cipriota che su un podio olimpico si è ascoltato solo grazie a lei, ha pianto calde lacrime dagli occhi bellissimi e feriti, ma tutt’altro che arresi.

 

Toni Piispanen (Finlandia)
Atletica

Se l’atletica finlandese non vive più da decenni i fasti consentiti da fuoriclasse del fondo come Paavo Nurmi e Lasse Viren, a livello paralimpico ha un uomo geniale che anche a 45 anni continua a mettere la testa prima degli altri. Si chiama Toni Piispanen e a Tokyo ha vinto i 200 metri categoria T51, atleti in carrozzina, dov’è costretto dal 1993: era un giovane karateka di rilevanza nazionale quando a 17 anni, in un incontro a Lahti a cui erano presenti centinaia di spettatori, si lesionò irreparabilmente la spina dorsale. E allora si continua, si va avanti, si deve. Diventa nazionale di rugby in carrozzina e poi passa all’atletica leggera, velocità pura: vince i 100 metri a Londra 2012 in uno stadio Olimpico incredibilmente pieno, precedendo sul traguardo il trevigiano Alvise De Vidi, colosso dell’atletica paralimpica con sei ori in tre edizioni. Nel 2018, deluso da una medaglia d’argento conquistata agli Europei, ha studiato nei minimi particolari i dettagli tecnici della sua performance, concludendo che il problema stava nei primi dieci metri: così ha migliorato la carrozzina con l’aiuto di un accelerometro grazie al quale ha guadagnato quei decimi in partenza che fanno la differenza e gli hanno permesso di vincere i 200 metri a Tokyo. Soprannome singolare, “Rasmus”: “Per due anni una persona del mio staff ha creduto che mi chiamassi così” (forse c’entra l’omonima rock band finlandese popolarissima a metà anni Duemila).

 

Tatyana McFadden (Usa)
Atletica

Fin qui abbiamo raccontato storie di grandi atleti aiutati da grandi colleghi, grandi amici, grandi genitori. Invece Tatyana McFadden non sarebbe del tutto d’accordo: nata a San Pietroburgo nel 1989 con un problema di spina bifida, è stata abbandonata appena nata da sua madre in un orfanotrofio dell’allora Leningrado. L’istituto non aveva troppi soldi per permettersi una sedia a rotelle, sicché Tatyana ha trascorso i primi sei anni di vita a camminare sulle mani. Nel 1994 Deborah McFadden, commissario per il Dipartimento della Salute Usa in visita casuale all’orfanotrofio, la conosce e decide di portarla con sé a Baltimora. “Un sacco di gente entra ed esce dagli orfanotrofi con l’idea di adottare dei bambini, ma quasi mai si tratta di bambini disabili. La guardai e stabilimmo subito un contatto per sempre”. Quell’imprinting di camminate sulle mani le ha reso le braccia fortissime, trasformandola in una fuoriclasse dell’atletica su sedia a rotelle: sette ori, sette argenti e quattro bronzi a livello paralimpico (tre medaglie a Tokyo), più una quantità innumerevole di altri trionfi (citiamo almeno le cinque vittorie nella maratona di New York). Il suo cognome precedente era Polevikova, dal nome di sua madre biologica Nina: l’ha rincontrata alle Paralimpiadi Invernali di Sochi 2014, dove l’incredibile Tatyana ha vinto una medaglia d’argento persino nello sci di fondo.

 

Hannah McFadden (Usa)
Atletica
Nata in Albania nel gennaio 1996 con una deformità alla gamba sinistra che ha necessitato ben presto l’amputazione sopra il ginocchio, gareggia con una protesi nella categoria T54, riservata agli atleti su sedia a rotelle senza funzione delle gambe. A Tokyo non c’era, ma nel suo palmares brillano quattro bronzi mondiali tra il 2015 e il 2017 e la partecipazione a Londra 2012, dove ha stabilito il record della prima coppia di sorelle ad aver mai gareggiato in una Paralimpiade assieme alla sua amata Tatyana (eh, sì). La storia è molto simile: mamma Deborah la incrociò in un orfanotrofio e la portò con sé a Baltimora così come, qualche anno dopo, la terza sorella Ruthie, l’unica non disabile, nonché l’unica a non essere diventata un’atleta.

 

Deborah McFadden (Usa)

Nel 1980 Deborah McFadden sembrava avviata a una brillante carriera da schermitrice, quando le fu diagnosticata la sindrome di Guillain-Barré, che nelle forme più acute paralizza gambe e braccia, inibisce il movimento e impedisce di essere autosufficienti. A quel punto, le solite fosche previsioni dei medici: probabilmente morirà, certamente non camminerà più. Impossibilitata a muovere ogni muscolo dal collo in giù, Deborah resta su una sedia a rotelle per dodici anni, quotidianamente umiliata dai comportamenti della gente attorno a lei; trova solo un impiego come operatrice di call-center, grazie al suo talento nello schiacciare i numeri sul telefono usando uno stuzzicadenti, finché – trascinata da una forza di volontà oggettivamente sovrumana – riprende a camminare. Porta le sue istanze fino ai piani più alti della politica americana, aiutando l’amministrazione di George Bush a stilare l’Americans With Disabilities Act. Ha girato il mondo, ha spiegato le sue ragioni a sovrani, capi di stato e anche a papa Wojtyla, ha viaggiato in Asia e in Europa e alla fine ha incontrato e salvato le sue tre figlie.

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