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un'icona non statuaria

Germaine Acogny, la Leonessa della danza africana

Marinella Guatterini

Celebrata alla Biennale, il suo corpo è tutta la forza di un continente, di cui ne è ambasciatrice nel mondo. A 78 anni, riceverà il 24 luglio, il più che meritato Leone d’oro alla carriera

Guardo l’imponente e perfetta massa muscolare del suo corpo, il bel volto color cioccolato e la sua testa rasata, e resto quasi ipnotizzata dagli occhi penetranti, talvolta feroci, di questa donna speciale. Preferisco non toccarla anche se il tatto o First Sense è il titolo post pandemia, scelto dal britannico Wayne McGregor, il nuovo direttore della Biennale Danza. Di gran lunga preferisco osservarla a distanza come quando, a 70 anni, si muoveva nello spazio buio e soffocante di un alto e stretto sarcofago in Mon élue noire (La mia Eletta nera): Sacre #2 di Olivier Dubois: geniale coreografo che nel 2014 la sottrasse all’oblio portandola, nel 2018, dopo una lunga tournée, verso il suo secondo Bessie Award americano.

 

Così la riconosco quale è: la madre della danza contemporanea africana, un mito, una leggenda sconosciuta o distorta, un’icona non certo statuaria, ma carica di invidiabile energia. A 78 anni, Germaine Acogny, riceverà il 24 luglio, il più che meritato Leone d’oro alla carriera: non solo il primo Leone nero almeno per i settori danza, teatro, musica e cinema. Invece, nel 2015, un Leone di colore fu attribuito dalla 56esima Esposizione Internazionale o Biennale d’Arte a El Anatsui, artista ghanese, famoso nel mondo per le sue opere nate da materiali riciclati. Da questo scarno quadretto non si possono trarre conclusioni affrettate. L’Africa non è un paese ma un continente con ben 54 stati, più due ancora incerti: Sahara occidentale e Somaliland. Gli stati accertati hanno il proprio governo, il proprio pil, la povertà aggrappata a guerre insolubili o agli strascichi di atavici conflitti tribali che hanno lasciato sul campo milioni di cadaveri. E se alcuni di questi insospettabili paesi sono riusciti a costruire importanti centri di alta formazione come la Kwame Nkrumah University of Science and Technology a Kumasi, in Ghana, o l’Accademia di Belle Arti nigeriana a Nsukka, lo stesso non si può dire per le arti performative, e coreutiche.

 

A Johannesburg, in Sudafrica il “dopo Mandela” fece di sicuro esplodere un’etnia  artistica, tutta bianca, che se per il teatro annovera tuttora il regista-disegnatore William Kentridge, per la danza enumerò Robyn Orlin soprannominata “irritazione permanente”: ancora ai tempi dell’apartheid sbatteva in faccia ai borghesi conservatori le loro vergogne in pièce dai titoli beffardi, come If You Can’t Change the World Change Your Curtains (Se non puoi cambiare il mondo, cambia le tue tende). Dopo di lei Dada Masilo, da Soweto, creò una serie di remake accademici: dal Lago dei cigni a Giselle, con un pathos concentrato su problemi sessuali e non più politici. Giunti ormai nel terzo millennio, i danzatori africani di colore sono accolti ovunque: bravissimi, vanno e vengono dall’ École des Sables (La Scuola delle sabbie), creata, nel 2004, a Toubab Dialow sulla costa dell’Oceano Atlantico dalla nostra “divina” e da Helmut Vogt, il suo secondo marito, o fanno parte di Jant-Bi, la loro compagnia.

 

Nata nel Benin francese, Germaine Acogny ha una storia che impatta erroneamente con Maurice Béjart. Molti credono abbia danzato per il coreografo marsigliese, nel 1959 diventato famoso per la sua Sagra della primavera; credono abbia fatto parte della sua prima compagnia, il Ballet du XXème Siècle. Niente di tutto ciò, anche se nel 1977 proprio Béjart, insieme all’accademico Léopold Sedar Senghor, dal 1960 primo presidente del Senegal indipendente, la elessero, a Dakar, direttrice di “Mudra Afrique”, o “Centro Africano di Ricerca e perfezionamento dell’interprete”. Giunsero a lei soprattutto per la sua autorevolezza e il suo carisma. Ancora adolescente, Germaine aveva lasciato l’Africa per la Francia con Togoun Servais Acogny, il padre, per studiare Educazione fisica e ginnastica ritmica ma anche per avvicinarsi al balletto e alla danza moderna occidentali. Una volta diplomata, era rientrata in Senegal per occupare un posto consono alla sua formazione. Invece, nel 1972, si ritrovò a dirigere la sezione “danza africana” in un Istituto delle Arti e qui si mise ben presto in luce per le sue capacità organizzative e pedagogiche. Senghor, il poeta-politico, intravide in lei l’esatta personalità in grado di rappresentare lo spirito della “negritudine”, ambizioso progetto di crescita della cultura nera, volta a entrare nella storia mondiale attraverso la sua modernizzazione. Di lì a dirigere “Mudra Afrique” il passo fu breve, ma non la sua guida e la sua completa riuscita.

 

Anzitutto il drammatico vissuto personale di Germaine (ma lei dice “in tutte le famiglie c’è un dramma”) non sembrava del tutto in sintonia con le aspirazioni di Senghor. Il padre di lei, diventato funzionario amministrativo  e fervente cristiano cattolico, aveva lasciato il Benin separandosi dalla moglie che, per quanto convertitasi pure lei alla religione di Roma, scontava il peccato di aver concepito la loro figlia prima del matrimonio. In più il rigido Togoun mal sopportava che sua madre fosse una sacerdotessa vudù, discendente dall’etnia degli Yoruba lacerati dalla diaspora. Una sacerdotessa non certo legata alla magia nera, alla stregoneria delle bamboline trafitte con gli spilloni per ferire una persona a distanza, bensì all’animismo tradizionale africano. Invece Germaine a quella nonna che insegnava alle giovinette nella foresta sacra l’importanza degli antenati, la bellezza della natura e l’etica di una religione tra l’altro resa ufficiale nel Benin nel 1996, rimase sempre molto legata nelle sue riflessioni e nella sua danza. Da bambina danzava cercando di imitare gli alberi mossi dal vento; le compagne la chiamavano “la folle”, ma poi la imitavano.

 

All’ombra di “l’emozione è negra come la ragione è ellenica”, un concetto, caro a Senghor ma ormai appassito, “Mudra Afrique” dischiuse le sue porte, a Dakar, in un edificio ispirato all’antica architettura greca, già Musée Dynamique, consacrato a temporanee mostre d’arte. Maurice Béjart, figlio del filosofo Gaston Berger di antiche origini senegalesi, era felice di espandere il successo di “Mudra” (in sanscrito significa “gesto”), la scuola internazionale da lui inaugurata a Bruxelles nel 1970, a latere della sua compagnia, e rivolta a giovani desiderosi di imparare l’arte totale della scena. 

 

Germaine onorò sempre Béjart: “Per me è stato un padre, e mi ha influenzata”, e si trovò investita del compito di creare un nuova danza negro-africana che portasse alla creazione di un Balletto nazionale. Nonostante la sua linea di pensiero fosse più afrocentrica rispetto alla negritudine modernizzata di Senghor, stava realizzando il sogno di dirigere una Scuola sostenuta dall’Unesco, dal governo e pure dalla portoghese Fondazione Gulbenkian che pagava i suoi danzatori, per diventare tali. Le selezioni si svolsero in ben cinque paesi dell’Africa centrale e occidentale, ma alla fine i migliori candidati provennero in gran parte da gruppi locali o nazionali di danza tradizionale che non avevano idea di cosa fosse il professionismo, né mai calcato la scena.

 

Germaine diede alla Scuola un’impostazione ferrea: con lezioni di danza classica, grazie ai maestri giunti da Béjart, moderna nello stile di Martha Graham e Alvin Ailey da lei prediletti, yoga, ritmo, solfeggio, uso della voce, più la sua danza africana alle cui figure diede nomi evocativi come “Il cervo”,  “il cocchiere”, “il passeggero”, “la ninfea”, “il falco”. Si lavorava duramente, dal lunedì al sabato e per otto ore, ma soprattutto sulla danza accademica e moderna. Di qui le prime contestazioni da parte degli allievi che si sentivano “utilizzati dai bianchi”, ma anche dai maestri che li ritenevano incapaci di recepire il verbo coreutico occidentale. Fu l’inizio della fine. Nel 1980 cessò il mandato presidenziale di Senghor e il nuovo presidente Abdou Diouf non mostrò alcun interesse per “Mudra Afrique”; ne ritirò i finanziamenti, convinto che quella Scuola non avesse prodotto alcunché; mentre Béjart, in parte se ne disinteressò, impegnato lui stesso a traslocare la sua troupe in Svizzera, dove divenne Béjart Ballet Lausanne. L’unica a tener testa al fallimento fu l’Acogny; resistette ancora sino al 1982; nel frattempo divorziò dal suo primo marito poligamo dal quale aveva già avuto due figli, scrisse il suo primo libro, Dance Afrique (1984), tradotto in tre lingue e con prefazione degli altri due fondatori di “Mudra Afrique” per lasciarne testimonianza. Nello stesso anno si risposò con il tedesco Helmut Vogt, suo indispensabile coadiutore: fu il suo sostegno nei tempi bui, quando a 40 anni si trovò costretta a ricominciare tutto da capo. Con Vogt lasciò Dakar per trasferirsi a Toulouse in Francia, dove fondò una compagnia e riprese gli assolo già impostati a “Mudra Afrique - “una forma, l’assolo, del tutto inesistente nella tradizione africana”, assicura Germaine, “e di cui sono stata l’iniziatrice”. Il suo cuore era però rimasto in Senegal. Vi ritornò all’inizio degli anni ‘90 fondando nel piccolo villaggio di pescatori Toubab Dialow sotto una tenda una Scuola privata che aveva per pavimento solo la sabbia.

 

Cominciò a invitare coreografi noti. Nel 1996 giunse Susanne Linke, esponente di spicco del Tanztheater tedesco: con otto danzatori africani creò uno dei suoi spettacoli più ruvidi, affascinanti e discussi: Le Coq est mort (Il gallo è morto). Il suo racconto è tragicomico. “A Toubab Dialow c’era un gallo che ogni mattina mi svegliava alle cinque e avrei voluto ucciderlo; ne parlavo a tutti e infine qualcuno cominciò a cantare la filastrocca del gallo che divenne il Leitmotiv del nostro lavoro. All’inizio le prove furono scoraggianti: sulla sabbia, all’aria aperta, sotto gli strali di un sole cocente e le folate di un vento impetuoso, quei ballerini intensi e dall’aura meravigliosa, sembravano però del tutto incapaci di rapportarsi ad una struttura coreografica; e di donne neanche a parlarne, prive di energia e ancor meno determinate ad apprendere”. Linke tornò in Europa, ma senza rinunciare alla sfida di essere la prima coreografa tedesca nel Continente nero.

 

Al secondo incontro cominciò a interrogare i suoi otto adepti sui disastri africani, sull’economia caracollante, le acque inquinate, gli animali, feroci o meno come gli elefanti, portati nelle riserve o uccisi. La reazione degli interpellati fu politica. Rifiutando gli abiti occidentali, i danzatori di Le Coq est mort competevano tra loro per il possesso della terra, delle oasi, dell’oro nel sottosuolo, tema molto sentito ancora oggi, entro una sabbia così leggera e trasparente da sembrare acqua. In scena la lotta generava guerra e morte, ma prima di soccombere i protagonisti si trasformavano in scimmie, causa del razzismo di cui fu tacciata la pièce, anche se - ignoranza occidentale - per un danzatore africano rifare alla perfezione le movenze di una scimmia è un onore: non vuol dire ballonzolare qua e là, ma possedere un incredibile controllo del corpo. Poi si tornava in piedi a intonare il verso del gallo.

 

Quando, nel 2013, il coreografo Dubois raggiunse l’Acogny ancor prima di chiederle di diventare la su “Eletta nera”, che tale non era stata per Béjart nella sua Sagra della primavera, trovò una struttura affatto diversa dalla tenda svolazzante della Linke. L’École des sables era ed è un luogo magico: con una grande tenso-struttura recintata all’aperto ancora sulla sabbia, un’enorme sala di danza al coperto aggettante sull’Oceano, altre sale e bungalow per studenti e ospiti. Dubois ignorava che proprio all’École des Sables un’altra Sagra sarebbe rinata. Nel 2019, Rolf Salomon Bausch, il figlio di Pina Bausch, a capo della Fondazione intitolata alla madre, realizzò il suo sogno: allestire con 34 danzatori africani la più famosa coreografia, del 1975, di Pina. Pièce travolgente, fu bloccata nel 2020 dalla pandemia e per ora è un film intitolato Dancing at Dusk- A moment with Pina Bausch’s The Rite of Spring. Germaine ne rimase affascinata, osservando come “il sacrificio di giovanette fosse assai comune anche nelle tradizioni africane più antiche”. A esse in parte ritorna in Somewhere in the Beginning, firmato Mikaël Serre, di cui sarà interprete prima dell’assegnazione del Leone d’oro. 

 

L’assolo racconta due autobiografie: quella di Germaine e quella del padre, tratta da un libro di memorie che costui scrisse prima di morire. È la resa dei conti di una figlia con il fantasma del padre in uniforme militare. Ma non solo. In un filmato Acogny si ritrova, disillusa e spaesata nella Disneyland di Parigi. Più tardi si concede a un ballo con donne senegalesi, e disconosce quelle mussulmane in lite per i loro mariti condivisi. Diventa persino Medea disprezzando coloro che credono che l’educazione dei figli sia solo un compito femminile. Così si scontra con il conformismo del potere e della religione e le differenti vicende che animano la sua memoria e il suo corpo. 

 

Quando è nata, racconta in Somewhere in the Beginning, una colomba apparve sul davanzale della finestra: era la sua nonna reincarnata. Da lei ha ereditato i coltelli con cui taglierà tutte le aspettative della sua stirpe, ma non potrà mai cancellare i frutti della sua titanica impresa da vera guerriera. L’enorme quantità di danzatori dell’Africa nera, ospiti come coreografi in spettacoli, in festival alle porte o già in corso in Italia, o in teatri internazionali, hanno fatto tesoro, da professionisti sulla scena del mondo, della domanda chiave del “metodo Acogny”: da dove vieni e dove vai? Che tradotto in movimento significa attenzione alla ritualità, alla respirazione, all’uso del bacino, alla contrapposizione costante tra elevazione e lavoro a terra, al tremolio, all’osservazione della natura, in specie agli alberi, simboli della verticalità, per una gestualità personale e mai omologata.

 

Questo è capitato agli otto protagonisti neri di Omma dell’ungherese Joseph Nadj, in scena alla Biennale Danza il 29 e 30 luglio; provengono da paesi poverissimi o quasi: Burkina Faso, Costa d’Avorio, Senegal, Mali, oppure ricchissimi come la Repubblica democratica del Congo, dove nonostante l’oro, i diamanti, il cobalto, il 40 per cento della popolazione vive con un dollaro al mese. Due di loro, Jean Paul Mehansio e Djino Alolo, concordano: “In Omma, Nadj ha creato brevi sequenze e ci ha fatto sprofondare nei nostri istinti; ha rifiutato tutti i movimenti e gesti che  proponevamo per accogliere quelli che avremmo gettato nella spazzatura: con il corpo che non accantona la voce abbracciamo il mondo”. Tra un coreografo misteriosamente kafkiano come Nadj, e Germaine Acogny, anche Boukson Sere, altro interprete di Omma ravvisa affinità: entrambi scandagliano le origini della danza e del movimento. Globalizzazione? Ma esiste davvero? Germaine Acogny è un prezioso Leone africano e nero.    

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