Lo scrittore francese Albert Camus (foto Ansa)

Riscoprire Camus, sgradito ai comunisti finché loro piacquero agli intellettuali

Alfonso Berardinelli

“Lo stato d’assedio”, curato da Riccardo De Benedetti, è un invito a rileggere lo scrittore francese d'Algeria, dimenticato dalla cultura d'oltralpe

"Lo stato d’assedio. Per fare un buon uso di Albert Camus”: è questo il titolo di un piccolo libro (Mac Comunicazione, pp. 111, euro 12,50) che raccoglie sei interventi scritti nel 1960, a un mese dalla morte di Camus, per la rivista La Table Ronde. Il buon uso di Camus che compare nel sottotitolo si riferisce naturalmente ai lettori di oggi. Ma la prima cosa che mi viene in mente è che la cultura francese ha dimenticato Camus, voleva dimenticarlo, era pronta a dimenticarlo già prima che fosse morto, a soli quarantasei anni. Di fare un buon uso, o semplicemente un uso, di Camus, sembrò che agli intellettuali francesi fosse del tutto passata la voglia. La sua opera venne prontamente respinta nel passato. La scena, con gli anni Sessanta, si riempì subito di nuove star e sembrò che all’improvviso per lo scrittore francese di Algeria, sorprendente premio Nobel nel 1957, non ci fosse più posto.

 

Con il 1960 si apriva l’epoca che avrebbe visto schierati per un ventennio e più i nuovi protagonisti: Roland Barthes, Lévy-Strauss, Blanchot, Bataille, Lacan, Ricoeur, Althusser, Deleuze, Foucault, Derrida, Sollers, Genette, Kristeva, Todorov, Baudrillard… L’esistenzialismo sapeva di anni Quaranta, ora dominava lo strutturalismo. L’io e l’individuo sembravano vagamente osceni e poco serio era nominarli. Tutto era struttura e perciò si doveva o essere strutturalisti o non essere. Tutte le scienze umane ne erano rimodellate, che si trattasse di psiche, società, comunicazione, filosofia, letteratura e infine, o meglio anzitutto, lingua: perché la linguistica, per essere moderna e scientifica, doveva essere linguistica strutturale. Il soggetto venne considerato irrilevante, illusorio o meglio: insussistente.

In effetti Camus appariva non abbastanza acculturato e professorale. Anche i nuovi rivoluzionari eversori erano tutti professori per i quali la realtà è solo un “sistema di segni”. Se Deleuze aveva scritto “Marcel Proust e i segni”, Baudrillard scrisse “Per una critica dell’economia politica del segno”. E’ vero che lo strutturalismo venne presto discusso e “superato” dal post-strutturalismo. Ma le teorie erano superate da controteorie, ognuna con il suo bravo gergo.

In Francia quel clima culturale è tramontato già con gli anni Ottanta, anche se si è diffuso nelle università di mezzo mondo dove stancamente sopravvive tuttora. Ma Camus è tornato in scena come narratore e scrittore di idee soprattutto per i romanzi “La peste” (1947), “Il primo uomo” (postumo) e la sua maggiore impresa saggistica, “L’uomo in rivolta” (1951), che Sartre e i suoi seguaci stroncarono. Non piaceva ai comunisti finché i loro partiti piacquero agli intellettuali e il marxismo sembrò l’ultima e migliore fonte di ogni conoscenza sociale e giudizio politico.

 

Si riapre la porta a Camus ogni volta che si torna a riflettere sulle situazioni e sui conflitti centrali del Novecento dal 1914 al 1950, quando alcuni capirono che non era possibile essere onestamente e coerentemente antifascisti senza essere anche antitotalitari e anticomunisti, come furono Silone e Chiaromonte, Souvarine e Koestler, Orwell e Camus. Doveva cioè essere possibile una sinistra che rifiutava il comunismo sia come prassi brutalmente dogmatica sia come eterna sirena utopica mai smentita dai fatti. Le idee di quegli autori erano fondate su vere e solide esperienze politiche. Dopo la metà del secolo scorso, quali serie esperienze politiche gli intellettuali hanno avuto in Europa?

 

Il piccolo libro “Lo stato d’assedio”, curato e introdotto da Riccardo De Benedetti, è un invito a rileggere Camus che va ascoltato. Scrive De Benedetti: “Nell’opera ‘politica’ di Camus non c’è spazio per il mito politico. Nel libro che oggi potrebbe ben figurare tra i livre de chevet delle nuove generazioni, se solo riuscissero a superare integri la muraglia di carta che impedisce loro il transito fra la vetrina delle librerie e le sue stanze più riposte e per questo più feconde, ‘L’uomo in rivolta’…”, eccetera. Credo anch’io che quel libro tanto criticato e non privo di difetti, non vada dimenticato. Da quando lo lessi, a diciassette anni, capendolo non so quanto, non ho mai rinunciato a farne buon uso, anche se credo che oggi come ieri Camus vada letto accanto a Simone Weil e al suo testamento filosofico “La prima radice”: libro e autrice che Camus, quasi da solo, trovò subito imprescindibili.