Dalla pagina Facebook del Santarcangelo Festival 2021 

futuro fantastico

Lucide allucinazioni al Santarcangelo Festival

Corrado Beldì

Una rassegna di gruppi emergenti e spettacoli, installazioni e progetti di cittadinanza attiva. E pure un laboratorio per cani e padroni, perfetto per un programma interspecista. Cronaca di una visita con tappe gastronomiche

Un agriturismo in cima a un poggio e i colli che si allungano verso Rimini, sono coltivati a Sangiovese e sembrano non finire mai. In fondo c’è il mare e più vicino svettano i superbi silos della vecchia cementeria Buzzi Unicem, è ferma da qualche anno, non certo un buon segnale per il futuro fantastico che il Festival di Santarcangelo intende raccontare. Una cinquantesima edizione ampia e multiforme, “di meduse, cyborg e specie compagne”, avviata già lo scorso inverno da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò con una rassegna di gruppi emergenti e ora spettacoli, installazioni e progetti di cittadinanza attiva, e pure un laboratorio per cani e padroni, perfetto per un programma interspecista, da vedere “con l’estraneità che la selvatichezza animale porta intrinseca e sacralizza”. Per farla breve, da vedere con gli occhi di un animale.

Non a caso sono qui con Nina Simone, la mia barboncina curiosa, in verità non la fanno entrare da nessuna parte e lei mi aspetta fuori con una invidiabile pazienza, fissa per ore il manifesto di quest’anno, un viso metà squamato dell’artista taiwanese Betty Apple e scorrazza in piazza Ganganelli, il punto di ritrovo tra un evento e l’altro. Basta l’arco di Clemente XIIII per farci sentire a casa, la Romagna è un regalo di mosaici e tradizioni, spiagge e frutteti e trattorie con le tovaglie disegnate da Tonino Guerra, la ghianda blu da Zaghini, tappa obbligatoria dove fanno le tagliatelle con ragù e piselli e ovviamente la zuppa inglese, dolce locale dal nome straniero, una ricetta di Pellegrino Artusi, gastronomo romagnolo per eccellenza.

Ce ne vorrebbe una doppia porzione per affrontare il “Terzo Reich” di Romeo Castellucci, nel buio qualcuno avanza portando quel che resta di un uomo, è una spina dorsale scarnificata, la muove come una spada e poi la spezza. Iniziano a scorrere le parole. Osso, paura, sangue, martello, latte, crudeltà, si susseguono a ritmo di techno, la musica è sempre più potente e sottrarsi è impossibile, la lingua delle dittature ha una sua meccanica, la subiamo come ipnotizzati fino all’ultimo sostantivo che resta scolpito nella memoria, orizzonte. Il nostro orizzonte è cenare alla Sangiovesa, volte a botte e quadri sui mattoni e quasi a tavola con noi un’autentica Maddalena Penitente del Cagnacci, pittore di Santarcangelo, a vederla non sembra affatto pentita, stringe un teschio tra le mani ma non come farebbe un San Girolamo, è ambigua e desiderosa del Cristo, ha lo sguardo voluttuoso che appare sul nostro viso quando portano le frittatine con erbe di campo della Tenuta Saiano, siamo in casa Maggioli e ci tuffiamo tra i salumi, le verdure e una scottona al sale grosso della salina Camillone di Cervia, in onore di Camillo Langone che è un habitué del posto.

Il giorno dopo siamo a villa Torlonia per un viaggio nei sogni di Muta Imago o meglio di Brion Gysin. Siamo in venti in una stanza, a ciascuno la sua amaca e un filtro sugli occhi, dondoliamo per un’ora tra le luci del deserto, un sole giallo fortissimo, l’azzurro di aurore boreali e le musiche molto psycho di Alvin Curran. Al Lavatoio proseguono le visioni con Paola Stella Minni e Konstantinos Rizos, appaiono nel buio e sono nudi a pecorina, la testa coperta da un cappuccio, è un balletto di orifizi su notturni di Chopin e citazioni di Steve Paxton e Yvonne Rainer, c’è molto rosso nelle parole e nei pigmenti sugli avambracci e ancora nel dragone cinese che chiude uno spettacolo seducente. Paola alla fine si avvicina e mi chiede se sono proprio io, ci eravamo conosciuti a Reggio e non avevamo mai smesso di ridere, mi aveva parlato di Montpellier e del suo futuro, due messaggi, una pandemia ed eccoci qui, ammetto che di spalle non l’avevo riconosciuta. 

Ne parliamo tra i viottoli di Santarcangelo fin sotto il campanone e davanti al bugnato della vecchia pescheria. Staremmo fino all’alba ma ci aspettano nel luogo che più amiamo, alla vecchia cementeria stasera danno un film e di straforo entra anche Nina. Sotto la torre di calcinazione c’è il truck di Davide e Francesca, anni fa sono rimasti insabbiati vicino a Timbuctù e hanno trasformato il loro camion in un cinema viaggiante a pannelli solari. Sono stati ovunque, dalla Mongolia al Burkina Faso e stasera in Romagna con un film che parla di redenzione, se fossi il sindaco ci metterei la sede del festival, una casa della cultura, post-industriale, sostenibile e inclusiva, per costruire il futuro fantastico che molti desiderano, non solo a Santarcangelo.