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I problemi delle "camere"

Echo Chamber per principianti

Paolo Landi

L’attivismo digitale si illude di portare avanti discorsi progressisti, in realtà rinsalda un sistema reazionario

In epoca di #metoo e di #cancelculture, quando escono libri sull’identità inafferrabile del nuovo capitalismo digitale e il dibattito si infiamma sull’uso del o della schwa, la postverità esige una riflessione laica sulle echo chamber, il nome di quei luoghi virtuali dove le idee, le credenze e le opinioni vengono amplificate e rafforzate dalla ripetizione all’interno di un sistema definito. Per noi frequentatori compulsivi di Twitter, Instagram, Tik Tok, Facebook sarebbe difficile orientarsi tra i milioni di post che ogni secondo invadono questi social, attraverso i quali, sempre più spesso ci informiamo: ecco quindi che interviene l’algoritmo, che opera per noi una selezione, proponendoci contenuti che “ci piacciono”, con i quali siamo d’accordo, che ci fanno sentire parte di un mondo che ama ciò che amiamo e che la pensa come noi. Ci troviamo cioè rinchiusi, spesso senza saperlo, senza averne la consapevolezza, nelle echo chamber, “camere” in cui l’eco del nostro conformismo si riverbera: siamo noi ad aver fornito ai social, sui quali apriamo i nostri profili, una quantità incredibile di informazioni, attraverso la pubblicazione di pensieri e immagini che dicono tutto di noi, cosa preferiamo, cosa acquistiamo, perfino quali emozioni proviamo e di fronte a cosa.

 

Una battuta rivelatrice spiega la potenza dell’algoritmo: “Sei eterosessuale ma Netflix continua a proporti film gay? Forse ti dovresti fare qualche domanda”. Perfino certe predilezioni, vere o false che siano, pulsioni profonde, semplici curiosità o desideri rimossi, vengono registrate dall’algoritmo che circoscrive l’ambito delle sue proposte sulle merci che sceglieremo di acquistare. “Merci” è una parola chiave, perché, nei social creati da corporation private (Mark Zuckerberg è proprietario di Facebook, Instagram, Whatsapp; Jack Dorsey è proprietario di Twitter; Zhang Yiming, possiede ByteDance e Tik Tok) anche le parole e le immagini sono considerate alla stregua di merci. Un’immagine pubblicata su Instagram o un’opinione espressa su Twitter ci sembrano forme di libera espressione del pensiero (e certamente lo sono), ma qui sono prima di tutto merci di scambio. Si dice spesso che se i social sono gratuiti è perché la merce di scambio con chi li possiede, consentendoci di utilizzarli senza pagare, “siamo noi” (la vulgata vuole che le informazioni che diamo siano inserite in banche-dati, che poi le corporation “venderebbero” alle aziende).

 

La faccenda è più complessa. La stessa Facebook ha avuto modo di difendersi da questo tipo di accuse sostenendo che i dati personali di ciascun individuo che usa quel social costituiscono un bene “extra commercium”, trattandosi di diritti fondamentali della persona che non possono essere venduti, scambiati o comunque ridotti a un puro interesse economico. Difficile che una corporation così potente, una struttura di comunicazione così semplice ma insieme così sofisticata, che copre per diffusione ormai quasi il 91 per cento del pianeta, si faccia prendere con le mani nel sacco mentre “commercia” database. Probabile che lo faccia, che faccia anche questo, ma non è qui il punto. Quello che sfugge è che una nostra foto o una nostra opinione possano essere “merci”: perché non siamo ancora abituati, noi analogici, nell’epoca del pionierismo tecnologico in cui ci troviamo a vivere, a considerare che un’emozione possa essere un prodotto che qualcuno può vendere. Abbiamo ancora bisogno di vedere qualcosa di “concreto”, una scarpa, un vestito, un’auto per considerare qualcosa una merce.

 

Difficile realizzare che le nostre opinioni, le nostre immagini e le nostre emozioni sono come un paio di Nike, o una Coca Cola. E invece, così come consumiamo un prodotto commerciale mentre beviamo una Coca, anche quando postiamo una foto su Instagram o rilasciamo un nostro commento su Twitter, proprio nello stesso modo in cui indossiamo un paio di sneaker o sorseggiamo la nostra bevanda preferita, stiamo consumando un prodotto commerciale. È quindi un sofisticatissimo, ancorché ignoto a noi utenti, sistema di scambio quello su cui si basano i social: per dirlo fuori dai denti, Instagram e Twitter smetterebbero di esistere senza le nostre foto e i nostri tweet. Nell’accordo che stipuliamo con Zuckerberg e gli altri quando scarichiamo le loro app (tutti abbiamo cliccato distrattamente su “Accetta”) è sotteso implicitamente questo: noi diventiamo fornitori di merce. Non ci viene detto – nella quantità di altre cose che invece si preoccupano di dirci, soprattutto su “privacy” e deontologie varie di comportamento – che da noi Zuckerberg si aspetta una fornitura di merce quotidiana e a titolo gratuito, merce che forniremo ma che Zuckerberg non solo non ci pagherà ma che avrà facoltà di rivendere, mettere a reddito o scambiare nei modi che lui riterrà più opportuni allo sviluppo del suo business.

 

La frase che compare in alto quando si apre il nostro profilo Facebook dice “A cosa stai pensando?” sollecitandoci a esternare il nostro pensiero. Dovrebbe dire: “Cosa ci stai vendendo?” perché quella è l’attività che siamo chiamati a compiere: siamo al mercato, dove ogni mattina, i banchi espongono i nuovi arrivi. La nostra quotidiana attività digitale non è altro che l’istituzionalizzazione di una nuova figura di produttore, e nello stesso tempo consumatore, di contenuti. Ecco perché le “echo chamber” sono cruciali: tutto il sistema dei social è basato sulla condivisione di contenuti, che l’algoritmo seleziona in base a ciò che abbiamo mostrato di prediligere; i nostri gusti personali diventano sui social una merce incredibilmente preziosa e più i like che ricevo mi convincono che le mie scelte sono “giuste”, più vedo che molti altri la pensano come la penso io, più sarò disponibile a esprimermi liberamente e, soprattutto, con continuità.

 

Le echo chamber censurano punti di vista differenti, rafforzano le convinzioni degli “user”, “puniscono” la condivisione di commenti dissonanti, accolti sempre con un bassissimo numero di “mi piace” (dalla mia community di riferimento, manovrata dallo stesso algoritmo). Si formano così gruppi di persone che condividono gli stessi sistemi di valori e di credenze, che sono più propensi a ritenere vere (o false) le informazioni che ricevono, che rifiutano la così detta “dissonanza cognitiva”, quando si trovano costretti a riconoscere come vere affermazioni che contrastano con il loro sistema pregresso di valori e convinzioni. Nel sistema commerciale si chiama “fidelizzazione” a un prodotto: tendiamo a comprare sempre la stessa marca di yogurt. Sui social tendiamo a seguire le opinioni espresse da quelli simili a noi. Si arriva perciò a un elemento rivelatore del nuovo capitalismo digitale: nonostante sui social ci si riempia la bocca della parola “inclusione”; nonostante l’avvento di Internet abbia facilitato l’accesso a una massa di informazioni mai vista, generando l’illusione che, senza mediazioni, questa libertà di espressione fosse una nuova possibilità di conoscenza, precedentemente prerogativa delle élite; nonostante i social si presentino sempre come custodi zelanti della democrazia, ciò che il nuovo capitalismo digitale cerca è il vecchio e risaputo concetto divisivo “divide et impera”.

 

Meglio le donne del #metoo contro gli uomini che tutti e due, uomini e donne uniti, insieme per la lotta alle ingiustizie che affliggono il genere umano. Meglio identificare un’ingiustizia con una connotazione di genere sessuale, piuttosto che “di classe”. Disturbano fino a un certo punto le “dieci frasi che le donne non vogliono più sentire”, perché una donna che non vuole più sentire un uomo che le dice “stai zitta” o “adesso ti spiego” è più funzionale al sistema di incitamento all’odio che i social promuovono. Meglio l’odio, da esprimere liberandosi e “vendicando” quelli come noi che non hanno il coraggio di insultare, del civile confronto delle idee. Meglio le polemiche sullo o sulla schwa, che tranquillizzano con un esorcismo facile le nostre coscienze di persone evolute (“mettetevi la schwa nel culo” twitta un certo @tuo.albertosuave). Il nuovo capitalismo digitale incoraggia le echo chamber, preferisce comunità divise su questioni irrilevanti, facendole passare per fondamentali, perché il potere economico ha paura della dialettica sociale tra poveri e ricchi, che anzi pretende di “modernizzare”, spostandola su temi civili, come se questi non fossero conseguenza della separazione a monte tra diritti primari e responsabilità politica.

 

Del resto tutti i social hanno origine dall’io come propulsore del narcisismo necessario a nutrire (to feed) i profili degli utenti. E il pensiero di destra – parafrasando Gilles Deleuze – parte sempre dall’io per arrivare al mondo, è la sinistra che, tradizionalmente, segue il percorso inverso. L’attivismo digitale si illude pertanto di portare avanti discorsi progressisti, ma non fa altro che rinsaldare le basi di un sistema fortemente reazionario. Crediamo di combattere delle battaglie su Twitter e Facebook e consumiamo invece, malinconicamente, un prodotto commerciale. Umberto Eco scrisse che se ci fosse stato Internet Hitler avrebbe fatto fatica a tenere nascosta l’esistenza di Auschwitz: non che i social stiano dimostrando una qualche possibilità di incidere sul problema globale dei migranti che è diventato, ormai da molti anni, da quando Internet c’era già, l’olocausto contemporaneo, con circa cinquantamila morti in mare che pesano sulle coscienze dell’Occidente, a prescindere dalle nostre condivisioni social.

 

È fondamentale quindi ricondurre il sistema dei social network nell’ambito appropriato dell’economia delle merci. Solo così possiamo comprenderne anche la valenza politica. La mission di Zuckerberg e soci è quella di farci stare più tempo possibile sui social, non certo quella di far evolvere il nostro pensiero: è la stessa della obsoleta televisione, che vuole inchiodarci davanti allo schermo per costringerci a vedere più spot. Niente di nuovo. Ma il dogma secondo cui Internet sia il simbolo per eccellenza della libertà di espressione e della democrazia si infrange proprio sul concetto di “consumatori” che, se non sfugge ai proprietari delle corporation, è ammantato, per quanto ci riguarda, da una colpevole ambiguità. Noi utenti dei social network, dobbiamo esserne coscienti, siamo prima di tutto consumatori: di una “vita” che, sulle piattaforme, impoverisce la cultura democratica, pur espandendo le possibilità di comunicazione. Le capacità dialettiche e di approfondimento, il confronto delle idee, l’articolazione del pensiero sono scoraggiati sui social, dove i video devono durare un minuto, le opinioni devono essere espresse in duecentoquaranta caratteri e dove abbandoni dopo cinque secondi se il link sul quale sei atterrato non è abbastanza “appealing”.

 

Dove la democrazia è intesa come uguaglianza consumistica: libertà come diritto di scegliere le stesse merci e tra forme diverse di propaganda e persuasione. Niente di moralistico, per carità: le nuove generazioni di nativi digitali sapranno già probabilmente come approfittare di questa velocità, di questa sincronia. Per ora chi vince sui social è l’idea malata di democrazia, il populismo. Nel suo libro Il capitale è morto, il peggio deve ancora venire (Nero edizioni, 2021) McKenzie Wark, la studiosa marxista eretica di origine australiana, ipotizza la nascita di due nuove classi: quella vettoriale, proprietaria dei mezzi di informazione che la massa utilizza quotidianamente e quella hacker, complessa ed eterogenea, costituita da ingegneri, programmatori, scrittori e creativi. Si assiste attoniti all’impegno improvviso di persone lontane da qualsiasi passione politica, che improvvisamente si fanno sui social paladini di una causa qualsiasi, pescata nel mazzo, di solito quella più vicina alla propria identità, poiché sui social si finisce sempre per parlare di se stessi.

 

L’attivismo social, nella versione “clicktivism” (il contrario dello “slacktivism”, l’attivismo pigro) si scatena sui temi vegani, femministi, animalisti, ambientalisti. Bernard-Henry Levy ha recentemente scritto un articolo (“La nuova barbarie digitale” sulla Repubblica, il 19 giugno scorso) in cui ha parlato della corruzione di Internet che, invece di offrire a tutti il mezzo tecnologico per contribuire all’avventura della conoscenza, “ha creato un chiacchiericcio globale in cui nulla autorizza più a gerarchizzare o a distinguere tra intelligenza e delirio, tra informazione e fake news, tra ricerca della verità e passione per l’ignoranza”. Le echo chamber contribuiscono a una radicalizzazione dell’opinione pubblica, dove il pensiero non circola più, ma si rinchiude in aree protette dove è spesso l’odio la scorciatoia per uscirne, allenati come siamo a non riconoscere più avversari politici ma solo “nemici”. Per questo la disinformazione e le fake news sono diventate la nuova minaccia globale, ma anche questa è una vittoria di Zuckerberg, che vuole i social, nel bene e nel male, sempre al centro della nostra vita e dei nostri pensieri: la bomba atomica (fisica, reale) che alla fine qualcuno sgancerà, ci annienterà mentre saremo impegnati in queste discussioni, perfettamente autoreferenziali, come piace a lui.