Rappresentazione teatrale de "Il Processo" di Kafka, al Nowy Theatre di Varsavia nel 2017 (EPA/Marcin Obara)

E se “Il Processo” di Kafka altro non fosse che il decorso di una malattia?

Matteo Marchesini

Diagnosi, attesa, condanna. Un'interpretazione post pandemica

L’opera di Kafka, è noto, sollecita e frustra innumerevoli interpretazioni. La sua lingua meticolosa e impassibile è una parete liscia su cui gli strumenti analitici (psicanalisi, teologia, marxismo) scivolano senza fare presa. Schiacciando su uno stesso piano i più vari livelli della realtà, lo scrittore induce gli studiosi a riarticolarli, e a tradire così l’enigma concreto della sua poesia. Non pretendo quindi di tentare in poche righe l’ennesima interpretazione (del resto nella critica kafkiana si trova già tutto, come nella biblioteca di Borges), e meno che mai di ridurre quell’opera a una piatta allegoria, o a una lunga similitudine in cui ogni figura sta per un’altra. Vorrei semplicemente offrire il resoconto di una mia rilettura del “Processo”, condizionata forse dall’atmosfera pandemica e da una personale vicenda di paziente.

 

Più mi inoltravo nella storia di Josef K., più mi sembrava di trovarmi davanti al decorso di una malattia. Dopo un risveglio sgradevole, in cui le cose non sono come dovrebbero essere, K. si scopre in arresto. Ma è uno strano arresto. Comunicata la notizia, le guardie si congedano convinte che il funzionario “vorrà certo andare in banca”. “Come posso andare in banca, se sono in arresto?” ribatte K. stupito. “La cosa non deve impedirle di svolgere la sua professione”, spiega un ispettore, né di mantenere “le sue abitudini”. Non è così che vengono comunicate certe diagnosi? Continui pure la sua vita come prima, finché è possibile… Le udienze somiglieranno allora a controlli periodici: un interrogatorio si può anche evitare, ma nel caso è l’interrogato a perdere l’opportunità di una “visita”. Il cappellano che darà a K. una sorta di estrema unzione oratoria ribadirà che “il tribunale non vuole niente da te. Esso ti accoglie quando vieni e ti lascia andare quando vai”. Il processo non avanza attivamente: semmai si moltiplicano i sintomi di una patologia strisciante, fino al momento imprevedibile in cui, chissà da dove, arriva la sentenza di morte.

 

Negli uffici del tribunale, soffocanti e promiscui come corridoi d’ospedale, la gente aspetta che si ammettano “alcune prove nella sua causa” come aspetterebbe di poter mostrare i referti degli esami. Quando lì dentro K. si sente male vogliono portarlo in infermeria: “il suo corpo voleva forse ribellarsi e preparargli un nuovo processo (…)? Non respinse del tutto il pensiero di andare, alla prima occasione, da un medico”. Un ruolo fondamentale hanno in Kafka i letti, luoghi nei quali la vita pubblica e la vita intima si mischiano proprio come in ospedale: quello del pittore Titorelli, pigiato contro la porta, e quello da cui parla l’avvocato Huld (gli avvocati sono dei medici-pazienti). Titorelli, che partecipa ai riti ufficiali dell’amministrazione ma conosce le vie ufficiose, sembra una specie di medico “alternativo”. E’ lui a spiegare a K. che “ci sono tre possibilità, cioè l’assoluzione reale, l’assoluzione apparente e la procrastinazione”, e anche che “tutto fa parte del tribunale”. La malattia coincide con la vita: si può al massimo cronicizzare, tenendo il processo “nel suo stadio più basso” e andando “dal giudice competente a intervalli regolari” (i check-up, appunto).

 

Quanto alla guarigione, è una leggenda. Perciò “un solo boia potrebbe sostituire l’intero tribunale” – ovvero, nella mia lettura “malata”, l’intero reparto dei medici specialisti, con le loro prescrizioni afflittive e contraddittorie e il loro gergo esoterico. A queste prescrizioni ci si sottopone finché “arrivano momenti di sconforto (…) in cui sembra che abbiano avuto una conclusione felice solo quei processi fino dal principio destinati a un esito felice, come sarebbe avvenuto anche senza aiuti, mentre sono andati persi tutti gli altri, nonostante ogni assistenza”. K. cerca di sfuggire allo sconforto chiedendo aiuto a Leni, la domestica dell’avvocato simile a una “piccola infermiera”. Anche i due uomini che lo portano a braccetto sulla pietra dell’esecuzione si fermano “come infermieri quando il malato vuol riposare”.

 

Così, sotto il loro bisturi, muore un funzionario che a trent’anni, mentre vorrebbe godersi la carriera e le notti di festa, passa il tempo a redigere una minuziosa anamnesi per capire dove si annida il virus della colpa. Ma è una ricerca vana. K. pretende di conoscere razionalmente ciò di cui si può solo avere esperienza; in un certo senso, è un ipocondriaco che vede avverarsi i suoi terrori. Qualche settimana fa, sul Foglio, Marco Archetti ricordava che le opinioni di Kafka sulla sanità erano quelle dei no vax. Aveva una sfiducia profonda nella pretesa dei medici di arrivare a risultati sicuri. In una lettera a Brod scrisse che “c’è una malattia soltanto, non di più, e la medicina insegue quest’unica malattia come un animale attraverso foreste infinite”. In una frase, ecco il riassunto delle trame più tipiche della narrativa kafkiana.

 

Di più su questi argomenti: