Relatività, Maurits Cornelis Escher  

L'iperrealismo di Kafka, che rompe i meccanismi di una realtà oppressiva

Elisa Veronica Zucchi

Come nel labirinto di Escher, cerchiamo un “fuori” luminoso

Se Franz Kafka fosse iperrealista, come sostengono Deleuze e Guattari (Kafka. Per una letteratura minore. Quodlibet, riediz. 2021), come si giustificherebbe la spada di Damocle di una colpa originaria che pende su tutta la sua opera? O, meglio, cosa significa iperrealista e, ancora, è iperrealista il concetto di colpa originaria, insomma di quale colpa stiamo parlando? O si tratta di qualcos’altro? Pensando anche a Sorvegliare e punire di Foucault, il filosofo e lo psicanalista rispondono che la pena viene prima della colpa.  

 

“Noi siamo pensieri nichilistici, (…) pensieri di suicidio che affiorano nella mente di Dio”, ironizza Kafka colloquiando con l’amico e curatore Max Brod (cit. in W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, 1962, pp 265-6). Siamo in prigione e ogni via di fuga si arrende dinnanzi a un ingresso sbarrato, all’interdizione. In Davanti alla legge (questo racconto è parte del penultimo capitolo del romanzo Il processo), dietro alla porta della legge, custodita dall’“infimo dei guardiani”, appare uno splendore inattingibile pari, in potenza, allo sbarramento che rende inaccessibile l’ingresso.

 

L’ingresso è un inganno, una falsa prospettiva di fuga. “Il Castello ha molteplici ingressi ma non si sa bene quali siano le leggi che ne regolano l’uso e la distribuzione. L’albergo di America ha innumerevoli porte (…), e persino degli ingressi e delle uscite senza porte. Pare tuttavia che la Tana, nel racconto omonimo, abbia una sola entrata – tutt’al più la bestia pensa alla possibilità di una seconda entrata, che avrebbe una pura funzione di sorveglianza. Ma è una trappola, della bestia e dello stesso Kafka; tutta la descrizione della tana è fatta per ingannare il nemico” (Kafka. Per una letteratura minore, p. 7).

 

Come nella litografia “Relatività” di Escher, che ricorda per la complessità dell’architettura la Tana di Kafka, ci troviamo di fronte al paradosso di una partita giocata su molteplici scale/gallerie/scacchiere che nascondono tranelli, botole e labirinti. Tuttavia nel quadro c’è un “fuori”, luminoso, dove vediamo passeggiare una coppia abbracciata, mentre in Kafka il fuori è piuttosto una stanza contigua, un corridoio, un ritratto o un suono. E i ricordi si cristallizzano negli oggetti. L’iperrealismo di Kafka non si svela attraverso la rassegnazione dei suoi personaggi, che invece è fatalista, metafisica, ma risiede – come hanno visto bene Deleuze e Guattari – nel potere metamorfico e nell’acribia di un linguaggio “diabolicamente innocente” e profetico, che scardina dall’interno il meccanismo oppressivo e burocratico della realtà sociale e politica. Appoggia sui gangli del Sistema una lente d’ingrandimento che è un bisturi.  

 

Ne deriva un’ipercomicità. Che è tutto il contrario del comico, poiché si sottrae al tragico per giocare con l’osceno. Perciò moltiplica gli ingressi e le gallerie: è necessario nascondersi, poiché siamo nudi di fronte al nostro desiderio, financo ripugnanti. Se ne Le metamorfosi il borghese Gregor Samsa si trasforma in un inaudito insetto, se il “divenir animale” di un uomo accade, è perché v’è un eccesso di realtà che non può essere uniformato, un’esplosione del desiderio che, malgrado tutto, vuole dire la sua, fuggire. L’ebreo boemo Kafka, nato a Praga, scrive in tedesco, in quel tedesco della “Praga magica” che è una “lingua minore”: una lingua in cui confluiscono ceco, tedesco e yiddish, in una mescolanza che è, di per sé, al contempo, vicinanza ed estraneità. Proprio da lì Kafka ci parla, gridando e sperando come il suo infante Odradrek, l’ingarbugliato rocchetto da refe che non si lascia prendere.

Di più su questi argomenti: