Enzo Cucchi, Le Stimmate, 1980, Collezione d'Ercole (Pedrini Photograph, Zurigo)

il foglio del weekend

Gli anni dei pittori felici

Valeria Sforzini

“Painting is back”.  A Milano in mostra gli splendidi, colorati, folli anni Ottanta dell’arte italiana. In fuga dall’ideologia

E’ un po’ come se un’orda di ragazzi facesse irruzione in uno studio d’arte mentre è in corso una performance concettuale rovesciando sedie, bicchieri e busti metafisici, e poi prendesse mille barattoli di colore e li spargesse su tutto, in un’esplosione di gioia. Siamo negli anni Ottanta, anzi all’alba degli anni Ottanta, da non intendersi però come gli anni della Milano da bere, con i suoi eccessi, le spalline imbottite e la nuova televisione degli anni ruggenti. C’è molto da pensare al sud, invece: a Napoli, Roma, la Sicilia. Anche se la nuova mediaticità totalizzante di quel decennio, che a Milano ebbe il suo epicentro, qualcosa c’entra.  E siamo pur sempre a Milano, anche se è la Milano di oggi, molto diversa quattro decenni dopo l’irruzione di quel gruppo di giovani artisti pieni di vitalità e non disciplinati.

Siamo alle Gallerie d’Italia in Piazza Scala, il museo milanese di Banca Intesa Sanpaolo, e la mostra si intitola “Painting is back. Anni ’80, la pittura in Italia” visitabile fino al 3 ottobre. Una mostra che riporta in scena, attraverso “una prima disincantata lettura”, l’impeto creativo, il desiderio di tornare a vivere e a inventare bellezza, mescolando tutti i linguaggi, che può nascere soltanto dopo un momento buio, o faticoso, rigido, della storia (storia dell’arte). La pittura è tornata, annunciano gli anni Ottanta. Anche se non se ne era mai davvero andata. Era sopita e messa in secondo piano rispetto all’impegno intellettuale che l’artista doveva dimostrare attraverso le sue opere. I lunghi anni dell’arte politica, o del controllo politico sull’arte, sul ruolo degli artisti. Ora il pittore riprende in mano gli strumenti del mestiere, torna a lavorare con le mani, stende pennellate sgargianti e materiche sulla tela, senza timore di raccontare al contempo un cielo allucinato e un mondo a dimensione d’uomo, la provincia italiana e l’Asia remota, tra calembour e décollage. “Finiti i tempi seriosi e moralistici dell’éngagement, ecco subentrare l’irresponsabilità festosa del disimpegno, la ruota libera delle parole che si rincorrono tra loro, il flusso caotico delle immagini che si inseguono – scriveva all’epoca la critica Francesca Alinovi, parlando dello stravolgimento che stava avvenendo nel panorama artistico di quegli anni – Un tempo bisognava essere molto ‘intelligenti’ (o far finta di esserlo), […] Oggi si può essere tonti o ‘demenziali’ (o far finta di esserlo)”. 

La mostra nasce da una frase, apparsa come una fulminazione, sul New York Times: “Italians are all over”, gli italiani sono dappertutto, a cominciare dalle grandi esposizioni internazionali, che prestissimo si accorgono di questa nuova stagione italiana. Gli artisti oltreoceano sentono che il loro primato è messo in discussione da un manipolo di pittori italiani, anche grazie al successo che riscuotevano presso collezionisti e galleristi di fama mondiale. C’è Gino De Dominicis, che nel 1985 vince il Premio internazionale della Biennale di Parigi. Enzo Cucchi che dal ’77 all’85 espone da Modena a Zurigo, a New York, a Tokyo. O ancora Mario Schifano, che ha girato l’Italia da Udine a Bari ed è approdato a San Francisco. “La mostra non vuole esporre tutti gli artisti di quegli anni, non sarebbe stato possibile – spiega Luca Massimo Barbero, curatore e ideatore dell’esposizione, la prima nel nuovo ruolo di curatore associato delle Collezioni di arte moderna e contemporanea di Intesa Sanpaolo – Ma ci dà una possibilità rarissima: vedere cosa e soprattutto come dipingevano. E’ un percorso tra gli artisti e, allo stesso tempo, ogni dipinto è un ipertesto in sé. E’ una mostra pensata per i giovani, per chi si approccia a questo periodo storico senza preconcetti, con la voglia di vedere cosa accadeva allora a livello artistico”. Accanto ai nomi della Transavanguardia, il movimento identificato per la prima volta nel ’79 da Achille Bonito Oliva su Flash Art, e che include Sandro Chia, Enzo Cucchi, Mimmo Paladino, Nicola De Maria e Francesco Clemente, ci sono Gino De Dominicis e Luigi Ontani, Franco Angeli e Carol Rama, destrutturatori della tradizione, dipinti inediti di Mario Schifano e poi Salvo, tra i primi ad abiurare l’arte concettuale con i suoi dipinti di architetture in rovina. 

 

Aldo Spoldi, Le avventure di Gordon Pym, 1981, Collezione Intesa Sanpaolo (foto Paolo Vandrash)

“E’ una specie di cocktail inebriante – continua Barbero ­– Quando uscirono questi dipinti per la mia generazione fu una liberazione. In fondo, tutto quello che vediamo esposto è stato anche antidotico a quel momento storico che comprende i moti studenteschi e la strage di Bologna”. Oggi come allora, l’esplosione della pittura alle Gallerie d’Italia ci accoglie dopo un momento difficile, di chiusura e di isolamento. 

La mostra si apre con “Le stimmate” di Enzo Cucchi (1980), in cui un tema canonico dell’arte antica religiosa diventa un segnale: il saluto dell’uomo al centro del dipinto porta con sé la carica della modernità, dell’internazionalizzazione, ma allo stesso tempo rappresenta la storia, le Marche, con le colline che esplodono dei colori della terra di Leopardi, i piccoli borghi del centro Italia. “La mostra è fatta di piccole contraddizioni – continua Barbero, mentre ci accompagna in un tour all’interno delle Gallerie d’Italia – Dal titolo in inglese, che però racconta come gli artisti italiani fossero ormai internazionali, all’opera che accoglie il visitatore quando entra nella sala principale delle Gallerie: con ironia, laddove ci si aspetterebbe la pittura, c’è invece la videoarte”. Al centro della grande sala, dietro a un muro dell’allestimento, quasi una quinta teatrale che Barbero definirebbe “un inciampo”, c’è una installazione video di Studio Azzurro, “Il nuotatore (va troppo spesso ad Heidelberg)”, (1984). Ventiquattro monitor “attraversati” da un nuotatore, il tutto ambientato al centro di una piscina ricostruita, con tanto di scaletta e piastrelle azzurre.

“L’unica videoarte della mostra è in realtà l’opera più pittorica – continua Barbero svelando il suo gioco di “inciampi” – il venticinquesimo monitor proietta l’immagine di un orologio, come a ricordarci che, dove c’è l’arte, il tempo si ferma”. Le collezioni dalle quali provengono le opere si completano: dagli archivi privati degli artisti, alle gallerie, alla collezione stessa di Intesa Sanpaolo. Nel percorso espositivo si succedono citazioni degli artisti che aiutano a comprendere il loro messaggio. “Gino De Dominicis dice: ‘Il disegno, la pittura e la scultura non sono forme di espressione tradizionali ma originarie quindi anche del futuro’ – spiega Barbero – Il punto è questo. Non è un ritorno alla pittura, ma un ribadirne la presenza”. Un concetto che rimbalza sulle pareti delle Gallerie, ritornando più avanti, con una tela di Sandro Chia, “Il Pittore” (1978), che raffigura un omino intento a spargere pennellate su una tela, arrampicandosi in piedi sopra una specie di mostro verde accasciato a terra. “Sono come il domatore con le sue bestie. Mi sento vicino agli eroi della mia infanzia: Michelangelo, Tiziano, Tintoretto – dice Chia dalle pareti della mostra – Penso che il pittore, come Teseo, insegua una forma sulla tela come si caccia una bestia di cui conosco a malapena l’odore. E di cui ricordo solo di averla vista in uno dei miei sogni”. 

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