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Liberalismo, frutto più alto della civiltà cristiana

Giuseppe Bedeschi

Il Cristianesimo ha spezzato i rapporti sociali obbligati, fondando un credo universale e rivoluzionario. Che si trova alle radici del pensiero nelle società libere. Un saggio edito da Rubbettino

La religione cristiana ha introdotto per la prima volta nella nostra storia l’idea dell’universalità o eguaglianza della natura umana. “Non c’è qui né giudeo né greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina: poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù”: questo il fondamentale passo di san Paolo nella Lettera ai Galati (3, 28). A questo proposito, una grande personalità italiana del Novecento, Luigi Sturzo, parlava di tre novità introdotte dal Cristianesimo nella sfera sociale, e in particolare nello svolgimento della storia del pensiero politico: in primo luogo il Cristianesimo ha spezzato ogni tipo di rapporto obbligato fra religione, famiglia o tribù, nazione o impero, e, nel contempo, ne ha istituito uno su “base personale di coscienza”; in secondo luogo la Buona Novella è universale, poiché il Vangelo è destinato a tutti i popoli, a tutte le classi, senza alcuna distinzione etnica o sociale; in terzo luogo il Cristianesimo ha una fondamentale connotazione rivoluzionaria, poiché sovverte i valori tradizionali, in quanto nella sua prospettiva la personalità umana prende il posto dei gruppi sociali. Tutti questi temi vengono discussi da Danilo Breschi e da Flavio Felice in un dialogo ricco, intenso e serrato: "Ciò che è vivo e ciò che è morto del Dio cristiano" (Rubbettino editore). A questo dialogo farò riferimento, introducendo anche alcuni temi non trattati dagli autori.


La nostra civiltà europea (cioè occidentale, in quanto comprende anche gli Stati Uniti) è cristiana. Su questo punto fondamentale gli autori si soffermano più volte. Io aggiungerei che ciò è testimoniato dal fatto che uno dei frutti più alti della civiltà europea è il pensiero liberale, il quale affonda le sue radici nel cristianesimo. Basti pensare al teorico per eccellenza del liberalismo, a John Locke. Nel Secondo trattato sul governo (1690) Locke afferma che il potere politico, istituito dagli uomini al fine di proteggere la loro vita, la loro libertà e i loro beni, non può avere più diritti di quelli che gli vengono trasmessi. Vita, libertà e beni sono infatti diritti naturali insopprimibili; e “le obbligazioni della legge di natura – dice Locke – non cessano nella società, ma in molti casi diventano più coattive”. Tutte queste affermazioni Locke può farle sulla base della sua concezione giusnaturalistica di ispirazione cristiana, come è dimostrato dai suoi Saggi sulla legge naturale, che egli compose quando era poco più che trentenne.


Ancora: il più grande avvenimento della storia europea moderna è stato la Rivoluzione francese. Ora la Dichiarazione del diritti dell’uomo e del cittadino, la Dichiarazione dell’89, matura nel seno della civiltà cristiana. Quella Dichiarazione ha infatti alle proprie spalle i Bills of Rights degli Stati americani (Massachusetts, Virginia, North Carolina, Maryland, ecc.), che i rivoluzionari francesi (a partire da La Fayette) conoscevano molto bene. Senza le Dichiarazioni dei diritti degli stati americani, la Dichiarazione francese dell’89 non è nemmeno concepibile (come ha dimostrato assai bene Georg Jellinek nel suo classico saggio su La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino). Ma – ha affermato Jellinek – “l’idea di fissare in forma di legge i diritti innati, inalienabili e sacri dell’individuo non è di origine politica, bensì di origine religiosa. Ciò che fino ad oggi è stato considerato opera della Rivoluzione, fu in verità frutto della Riforma e delle sue lotte”. Come ha sottolineato Alexis de Tocqueville nel suo capolavoro sulla democrazia americana, una radice di fondamentale importanza di tale democrazia è da cercare nel fatto che la maggior parte degli emigranti in America apparteneva a quella setta inglese che per l’austerità dei suoi princìpi veniva chiamata puritana.


Una testimonianza della presenza decisiva del cristianesimo nei punti più alti del pensiero occidentale si trova nell’illuminista Kant, soprattutto in uno dei suoi saggi più profondi e drammatici: La religione entro i limiti della sola ragione (1793). Questo saggio non è affatto, come molti hanno preteso, una mera traduzione razionalistica della religione in termini morali. Infatti per Kant (come già per Agostino) l’uomo è afflitto da un “male radicale”, che egli può superare solo con l’aiuto della grazia: anche se la grazia non è per Kant un dono gratuito di Dio, indipendente dai meriti dell’uomo, ma un premio che Dio concede a chi impegna tutte le proprie forze per rendere buona la propria intenzione.


A un certo punto Breschi e Felice richiamano la ben nota riflessione svolta da Hans Jonas nel 1987, nel Concetto di Dio dopo Auschwitz: o Dio vedendo il male che c’è nel mondo può evitarlo, ma non lo fa, oppure vorrebbe, ma non può. Se Dio non può, non è onnipotente; se può, allora non è buono e misericordioso. A questo dilemma forse Kant risponderebbe ricordando quella “corruzione del cuore”, quel “male radicale” che non può essere mai completamente sradicato dalla natura umana. Un male che spetta ai cristiani combattere, sempre e senza tregua, con quell’azione morale che è la sola gradita a Dio.

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