Ritratto di Ivan Alekseevič Bunin del pittore russo Leonard Turzanskij (Wikipedia) 

il libro

Lo sguardo cupo di Bunin e l'amara verità del bolscevismo

Marco Archetti

“Giorni maledetti”, spietato diario dei giorni della rivoluzione bolscevica per la prima volta tradotto in Italia

Avverso come pochi al vertiginoso profetismo della rivoluzione bolscevica, a Ivan Bunin – scrittore autoesiliatosi in Francia dal 1920 e, nel 1933, primo premio Nobel russo – è toccato un destino beffardo: quello di esser stato, in fin dei conti, profetico. Ma è solo un effetto collaterale, non certo una volontà – effetto della sua sconcertante capacità e libertà di osservazione, e delle facoltà cristalline del suo sguardo vigile e panico, lo sguardo che può avere solo un grandissimo scrittore.

“Beati i morti!” è la citazione da Giorni maledetti (Voland,  216 pp., 18 euro) più sintetica e utile a render conto del sentimento che attraversa questo spietato diario dei giorni della rivoluzione: opera tragica per definizione, tragica da premessa, composita al punto da sembrare quasi impressionistica e virtuosamente frammentaria, è di fatto il diario di un’osservazione impotente. E’ la storia di uno sguardo, più che la storia di un paese o dell’inesorabilità del proprio destino. Uno sguardo che incupisce progressivamente e registra la notte che scende, raccontando l’amara verità che si fa strada sotto i colpi che l’autore infligge a se stesso per la semplice ragione che non può rinunciare a essere chi è, cioè uno scrittore, ossia un uomo che ascolta e osserva, un uomo che si arrovella sul linguaggio, che scova il ridicolo e non soccombe al sentito dire e al sentito vivere.  Un uomo che racconta lo squallente panorama di manipolazioni logiche e di materiali penurie con uguale irriducibilità e non depone la penna davanti all’orrore anche quando scrivere significa farlo col cuore in gola (“le palpitazioni mi hanno svegliato alle sei, è la follia collettiva”) o alla luce di una lampada di fortuna (“un po’ di olio e un sughero in un barattolo”). Uno sguardo che, in parole di fuoco, non risparmia niente e nessuno. Ed è proprio la qualità di questo sguardo, in un’opera che brilla per lucidità e tensione lirica, la caratteristica che lo rende attualissimo anche per noi, lettori di cent’anni dopo. 

Bunin è leale verso se stesso, anche a costo di se stesso. E il bestiario davanti ai nostri occhi è quello di ieri, di oggi, di sempre. Inevitabile, per lo scrittore, guardare con raccapriccio all’arbitrio, alle violenze, alle menzogne, e fare il ritratto, sgomento, a questi “banditori immersi nel sangue fino alle ginocchia” i quali, in una città sprofondata nelle tenebre notturne, sciamano su automobili spericolate. “Marinai con enormi Browning alla cintura, scippatori, efferati criminali, e alcuni elegantoni, tutti coi denti d’oro e gli occhi dilatati dalla cocaina”. Ecco i saccheggi e la distruzione, l’eccitazione, i pogrom, i civili ebrei giustiziati casa per casa. Ma ecco, soprattutto, la bestia umana e la sua vocazione allo sporco lavoro. Ecco i ruffiani che balzano di carro in carro e gli scaltri cantori di ciò che conviene (“tutto verrà dimenticato e addirittura glorificato! E a offrire il proprio aiuto sarà la letteratura, e la razza più pericolosa, quella dei poeti, che accanto a un unico, autentico santo, annovera sempre diecimila impostori, bastardi e ciarlatani”). Ecco gli abbattitori di statue (“passatempo noto”, sbuffa Bunin, mostrandoci come sia il mestiere – per moralisti – più vecchio del mondo). Ecco la malafede che trionfa, ecco la slealtà morale di cui lo spettacolo umano non ha mai smesso di dar repliche, come a teatro. 
“La quantità di bugie è tale da togliere il fiato”, annota. E poi, in calce a questo requiem, inchioda una verità: “E tutto, come sempre, per l’insostenibile brama di vedere la realtà coincidere coi propri desideri”.