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L'essenza del teatro

Il coraggio di Pirandello in “Sei personaggi in cerca d'autore”, che compie 100 anni

Pierfrancesco Giannangeli

I personaggi che acquistano un senso in carne e ossa durano ben più di quel paio d'ore di messinscena: lui lo capì prima di tutti, lo accolsero con le monetine. Oggi cosa gli riserverebbe il destino?

È passato un secolo, ma loro stanno ancora lì, sospesi tra palcoscenico e platea, a interrogarci sul senso del teatro e su alcune questioni che in tutto questo tempo ancora non possiamo definire risolte. Era un lunedì il 9 maggio 1921, quando al teatro Valle di Roma debuttò “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello, che all’epoca non era più da considerarsi uno scrittore, bensì un drammaturgo, vale a dire uno che non riempiva pagine per essere letto, quanto invece per essere rappresentato. A testimonianza di ciò ci sono i rapporti diretti con gli attori – prima Angelo Musco e poi Ruggero Ruggeri, quindi Maria Melato e il leggendario capocomico Virgilio Talli – da cui accetta suggerimenti che cambiano il suo approccio alla scrittura. Il cuore del problema e l’origine dei “Sei personaggi”, una famiglia disastrata che si presenta a una compagnia in prova affinché metta in scena il suo dramma – vicenda condotta in maniera magistrale per due terzi, mentre nell’ultima parte l’autore si incarta un po’ –, consistono nella riflessione sul passaggio dalla finzione alla realtà, che per Pirandello era diventato una vera ossessione.

 

Quel “nati vivi, volevano vivere”, frasetta di capitale importanza nella prefazione che lo scrittore aggiunge per l’edizione a stampa del ’25, viene da lontano: dalle tre novelle considerate preparatorie (“Personaggi”, 1906; “La tragedia d’un personaggio”, 1911; “Colloquii coi personaggi”, 1915; racconti nei quali c’è sempre qualche figura della mente che va a trovare l’autore nel suo studiolo), ma anche da uno scritto di molto precedente, “Quand’ero matto” del 1902, e da una lettera inviata al figlio Stefano nel luglio del ’17 in cui parla di un “romanzo da fare” che in breve tempo però si trasforma in un testo per il teatro, perché solo lì avrebbe trovato un significato. Pirandello, in sostanza, aveva capito che i personaggi di carta restano tali nella “servetta Fantasia” di chi legge, mentre quelli che acquistano un senso in carne e ossa hanno un destino diverso, diventando reali non soltanto per quel paio d’ore della messinscena.

 

E’ come se il buon Luigi fosse stato il precursore dei sequel e dei prequel, che in realtà hanno avuto più fortuna al cinema che a teatro. Collegata a tutto questo c’è la riflessione sull’essenza del teatro, che trova il momento più alto all’inizio della seconda parte, quando i personaggi non si riconoscono nei tentativi di interpretazione e gli attori se la prendono a male perché vedono minato alle fondamenta il loro lavoro. A chiudere la discussione è il Capocomico, che impone ai personaggi la presenza degli attori, perché in quel preciso luogo che si chiama palcoscenico “penseremo noi a trovare il tono giusto!”. Costruendo una scena in tal modo, Pirandello probabilmente sa benissimo che sta anticipando la stagione del teatro di regia anche in Italia, dove verrà introdotta ufficialmente, ma solo da un punto di vista nominale, dal linguista Bruno Migliorini nel 1932, e che effettivamente si svilupperà a partire dal Dopoguerra con il lavoro di Visconti e Strehler. Dunque, uno stile che da noi arriva con grande ritardo sul resto d’Europa, dove già da mezzo secolo erano note le tecniche di Stanislavskij sulla relazione tra attore e personaggio e poco dopo si impongono, con i loro spettacoli, Reinhardt e Pitoeff.

 

Una strada che corre nel solco di quella che è stata felicemente definita da Franco Perrelli “la seconda creazione”, cioè quella di un regista e che procede parallela, senza incontrarsi, se non all’origine, con quella di un autore. Si tratta dello sviluppo concreto della tesi espressa nel 1905 da Edward Gordon Craig, secondo cui il drammaturgo non è figlio del poeta, bensì del danzatore che assume su di sé il principio del movimento, quello che mette insieme azione, linee e colori nello spazio, fedele all’origine greca del teatro, parola che deriva da un verbo che significa guardare, e del dramma, espansione di una forma verbale il cui significato è agire. Osservare un’azione: questa è la natura del teatro, e non c’entra la letteratura, che è un’altra arte. Pirandello lo testimonia alla Storia con i “Sei personaggi in cerca d’autore”, che in realtà è un regista, l’unico a poterli far vivere sulla scena, dopo che uno scrittore li ha creati. Ieri come oggi non tutto il pubblico – troppo attento a cercare in uno spettacolo ciò che ha letto in un libro – è pronto per questo. All’uscita del Valle il drammaturgo fu accolto da una bordata di monetine. Ora che destino avrebbe il coraggio di Pirandello?

 

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