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Grazie, forza e fantasia

Non ce la faremo mai, dicevamo. E invece ce l'abbiamo fatta

Antonella Lattanzi

Il lavoro, i figli, le amiche, le lezioni online, il ristorante che non ha chiuso. L’estate del nostro talento è questa ed è il momento di raccontare come abbiamo fatto a superare i mesi più duri 

La prima volta che ho visto il mare, mi è mancato il fiato. Rinchiusi per mesi in casa, ci eravamo lentamente abituati all’idea che il mare, quest’anno, non l’avremmo visto. Che non avremmo visto l’estate del 2020. Che ci eravamo rinchiusi sul finire di febbraio, quando il tempo era ancora freddo, e saremmo stati liberati non prima di settembre. Se va bene. All’inizio del lockdown ci siamo guardati scioccati nelle nostre case, tra le nostre quattro mura. Cosa sarebbe stato di noi? Dei nostri progetti? Delle nostre vite programmate? Del nostro lavoro, ma anche delle cene con gli amici, delle visite ai nostri cari? Di tutto; cosa sarebbe stato di tutto? All’inizio, ci sconvolgeva l’impossibilità di dire: domani, tra una settimana, tra un mese. Il nostro primo talento, il talento più insperato credo, che ci ha tirato fuori questa incredibile realtà che ci è capitata, è stato spostare il nostro cervello su un’altra linea d’onda. Quando gireranno il film a cui stai lavorando? mi chiedevano. Quando uscirà quell’antologia? E io all’inizio ero disperata: non lo so più, dicevo. E guardavo il mondo davanti e intorno a me crollare. Poi, dopo un po’, è subentrato un senso non di accettazione ma di elasticità mentale che non è da me (io nel lavoro sono una specie di calendario umano, voglio sapere tutto quello che succederà). Quando si gira, quando si pubblica? mi chiedevano a marzo e ad aprile. E io sorridevo: chi può dare una risposta a una domanda così, adesso? E questa risposta neutralizzava altre domande. Ero tranquilla: si girerà, si pubblicherà, dicevo, quando sarà il momento giusto.

    

Io non sono mai stata così. Pazienza, mi dice sempre un mio carissimo amico, devi imparare ad avere pazienza. Io non sono un tipo paziente, io scalpito. E invece questa realtà incredibile mi ha insegnato non la pazienza – quella mai – ma l’ignoto.

   

E dunque quando, sul finire di maggio, ho messo i piedi sulla spiaggia per la prima volta, con un libro in mano – stavo leggendo “Che fine ha fatto Baby Jane?” – e un piatto di spaghetti alle vongole ad aspettarmi per il pranzo, mi sono girata verso il mio compagno e ho detto: “Ti rendi conto? Siamo coi piedi nella sabbia. Siamo al mare”. Mi sembrava incredibile. Eravamo davvero lì. E io, che non sono mai nel momento, non riesco a essere mai nel qui e ora (penso sempre a ciò che viene dopo, dopo, dopo), per la prima volta ero proprio lì: coi piedi nella sabbia. Sentivo quel calore.

       

Un altro talento che credo ci abbia tirato fuori con la violenza questa incredibile realtà è la meraviglia: meraviglia di guardare il mare, meraviglia di poter vedere gli amici, meraviglia di poter prendere un treno e andare dai nostri cari, meraviglia di poter fare una passeggiata. Meraviglia nel senso di stupore. Davvero – ho pensato la prima volta che sono andata in libreria, il giorno in cui sono state riaperte, bardata con guanti, mascherine, gel disinfettanti, e con una strisciante paura dentro – davvero sono qui? Mi sono girata verso il mio amico che non vedevo da mesi, con cui ci eravamo dati appuntamento lì, e ho detto: “Davvero siamo in libreria? Qui, insieme?”.

    

Grazie. E’ la parola che più mi viene da dire in questi mesi. Grazie. E io non sono un tipo che vede facilmente il bello. Per natura, l’oscuro mi si palesa agli occhi molto più comodamente. Tutto quello che non va. E invece in questi mesi, senza retorica, senza buonismo, mi vien da dire grazie: grazie perché sono riuscita a trovare il modo di lavorare (mio terrore, i primi tempi, rimanere senza lavoro), grazie perché i miei cari stanno bene, grazie perché, nei lunghi mesi di lockdown, io e il mio compagno siamo stati molto bene insieme (ero convinta che saremmo finiti come i protagonisti de “La guerra dei Roses”), grazie perché esiste internet e abbiamo potuto lavorare e vedere i nostri cari anche se attraverso uno schermo, grazie perché a un certo punto siamo usciti, e c’era ancora il sole, era ancora primavera, era ancora estate.

   

Non ce la farò mai, mi ha detto una delle mie più care amiche quando, dopo la maternità, è tornata a lavorare in smart working. Due figli – cinque anni uno, sette mesi l’altra –, lei e il suo compagno a lavorare tutto il giorno in pochi metri quadri, una casa da gestire, la spesa, il resto, senza aiuti. E a volte mi ha chiamato sull’orlo delle lacrime o piangendo e mi ha detto: non ce la sto facendo. Invece ce l’ha fatta. Ce la sta facendo. Ce la fa. Durante una lezione in streaming, a un certo punto la sua figlia piccola piangeva, e la mia amica ha finito la lezione allattando la bambina. Quella sua lezione così professionale ma anche così umana è piaciuta tanto ai suoi alunni. Non ce la faremo mai, dicevamo tutti, e invece ce la stiamo facendo. Con tanti dubbi, tanti ostacoli, anche tanto dolore e tante cose che abbiamo perso, tante rinunce, ma ce la stiamo facendo, ce la facciamo.

   

Lo faccio perché lo voglio, mi ha detto un’altra mia amica. Durante il lockdown, una famiglia – a lei sconosciuta – che abitava nel suo quartiere aveva perso tutti i guadagni e non riusciva più a sfamare i figli. Il padre e la madre se la sono cavata da soli. I due figli, da qualche mese, vivono con lei. Non è ricca, e anche il suo lavoro è in crisi. Ma lo fa perché lo vuole, e torna a casa la sera e cena con questi due bambini che ridono tanto, ma a volte sono anche tristi, o fanno qualche marachella. Lo fa perché lo vuole, e non sapeva, prima d’ora, che avrebbe potuto volere una cosa simile.

    

E’ impossibile far lezione online con dei ragazzi così piccoli, non ce la farò mai. Mia sorella insegna italiano alle scuole medie. Mi chiamava da Bari e mi diceva: è tutto così difficile, è impossibile. E invece ce l’ha fatta. Fino all’ultimo giorno, all’ultima tesina, all’ultimo scrutinio. Le lezioni online la mattina, due figli – uno di undici, che ha seguito tutto il tempo per farlo studiare, una di ventuno che studiava fuori ed è tornata a casa –, il suo compagno in smart working anche lui, la spesa, il cibo da cucinare, la casa da pulire – “continuamente, Anto, pulisco continuamente” –, le lezioni da preparare per il giorno dopo, il dovere di imparare a far lezione online a dei ragazzi così piccoli, il dovere di imparare a farlo mentre lo stai facendo. E poi la gioia di riuscirci. Dopo tanta fatica. E l’affetto e la gratitudine degli alunni e dei genitori degli alunni per essere stata davvero una maestra – femminile di maestro, guida – in questi tempi difficili. Ce l’ha fatta. Con fatica, rinunce, ansia, notti insonni, eppure ce l’ha fatta.

    

Chiuderemo, mi ha detto il padrone di uno miei ristoranti preferiti, nel mio quartiere, non ce la faremo. Il ristorante è nato da poco, e il mio quartiere è un quartiere turistico. Senza turisti, e con molti meno tavoli: come faremo? Me l’ha detto in lacrime la prima volta che – grazie – sono tornata a cena da lui. E invece sono passati mesi e ce la sta facendo. Prima, durante il lockdown, si è reinventato con la cucina d’asporto. Poi, ha sistemato i tavolini fuori e il plexiglas all’interno del locale. Lavoro quindici ore al giorno, mi dice, sono stanco. Eppure è qui, in questa estate romana senza turisti, e non molla.

    

Le due ragazze di Finale Ligure – Vittoria, 13 anni, Carola, 11 – che hanno giocato a tennis per tutto il lockdown palleggiando dal terrazzo di un palazzo all’altro non le conosco di persona. Ma è come se le conoscessi. E’ un’altra storia di talento, un talento d’invenzione, di fantasia, di forza. Dopo che il video della loro passione, della loro devozione al tennis ha fatto il giro del mondo, qualche giorno fa, in questa estate strana, Roger Federer in persona è andato a trovarle, a giocare a tennis con loro. Avranno pensato anche loro non ce la faremo mai? Eppure ce l’hanno fatta. E, grazie a Feder, adesso seguiranno un summer camp alla Rafa Nadal Academy. Non bisogna credere che quello che hanno fatto con testardaggine, costanza, dedizione per poter continuare ad allenarsi abbia a che fare solo con la forza della giovinezza. E’ la forza che c’è dentro le persone. Che una situazione come questa ci ha costretti a tirar fuori. E che non dimenticheremo.

   

Durante i primi giorni del lockdown, si cantava dai palazzi. Giuliano Sangiorgi, leader dei Negramaro, è uscito sul suo balcone e ha cantato e suonato, tra le altre, “Quanno chiove” di Pino Daniele. “E aspiette che chiove / L’acqua te ‘nfonne e va / Tanto l’aria s’adda cagna’. Ma po’ quanno chiove / L’acqua te ‘nfonne e va / Tanto l’aria s’adda cagna’”. Mi ricordo di aver visto quel video tra lacrime di commozione: c’era una forza, una speranza, una dolcezza in ciò che cantava Sangiorgi, e in come lo cantava. La gente applaudiva e cantava dai balconi, e chiedeva: ancora. Ancora un’altra canzone.   

        

   

Anche la musica, il teatro, il cinema – colpiti ferocemente dal lockdown e da questa estate difficilissima – stanno sfoderando tutte le loro forze e il loro talento per continuare, per resistere, per trovare altri modi e altri spazi. I Flaming Lips, band statunitense, hanno inventato un loro modo per poter tenere un concerto dal vivo rispettando le regole del distanziamento. All’interno del Late Show di Stephen Colbert, hanno suonato dentro delle bolle trasparenti – che contenevano ognuno un membro della band – davanti a un pubblico richiuso nelle stesse bolle. Chissà che esperienza dev’essere stata. Ce l’hanno fatta.

    

Arene all’aperto, concerti in streaming, film che dovevano uscire al cinema dirottati sulle piattaforme, set messi su con grande fatica e amore stretti dentro tutta una serie di regole per tenere al sicuro chi lavora, concerti distanziati: è l’arte che ci manca tantissimo, senza la quale non possiamo vivere, senza la quale non siamo vivi. L’arte che resiste, inventa, arranca ma non molla, si reinventa: per essere con noi anche adesso, qui.

    

Durante il lockdown mancavano i disinfettanti. Non ce la faremo mai. E invece, in tutto il mondo, tante aziende produttrici di alcolici hanno convertito la loro materia prima a uso medico. Ce l’abbiamo fatta, abbiamo potuto disinfettare gli ospedali, gli studi medici, i presidi sanitari.

    

Ce la faranno? quante volte l’abbiamo pensato dei nostri genitori anziani, o dei nostri figli piccoli. Ce la faranno i nostri genitori a rimanere a casa, prima, e a reimparare a uscire con tutti gli accorgimenti, poi? Mia madre e mio padre, tartassati dalla campagna terroristica operata da me e mia sorella, si sono chiusi in casa. Mio padre usciva solo per portare a passeggio Tex, il loro cane, e per poche urgenze. La spesa gliela portava mia sorella. Eppure, il momento più difficile forse è stato quello in cui le porte si aprivano e si poteva tornare alla realtà: sentivo i miei recalcitranti a uscire, e mi preoccupavo, come tutti, che i nostri genitori, una volta chiusi in casa, non sarebbero più voluti uscirne. Eppure anche loro, anche i nostri genitori, hanno tirato fuori i loro talenti: sono riusciti a rimanere in casa e poi, pian piano, a fare una passeggiata sul mare, a tornare a vedere noi figli – terrorizzati dalla possibilità di essere asintomatici e quindi di contagiarli. È stato uno sforzo da entrambe le parti: prima allontanarsi, poi riavvicinarsi. Senza sapere se abbracciarsi, se toccarsi.

    

Anche i nostri figli hanno passato mesi assurdi. Bambini piccoli reclusi in casa, senza amici: dimenticheranno cosa vuol dire stare con gli altri bambini? E se non dovessero più riuscire a relazionarsi con gli altri? La paura serpeggiava detta a mezza bocca, oppure gridata a gran voce. Chi pensa ai nostri figli? Eppure anche loro ce l’hanno fatta, ce la stanno facendo, piano piano, come tutti noi, e adesso li vediamo miracolosamente correre in spiaggia, giocare in mare o con la sabbia con gli altri bambini, abbracciarsi tra loro e raccontarsi le cose segrete che si raccontano i piccoli.

   

E noi li guardiamo e non vogliamo far vedere che ci commuoviamo, perché se no loro ci guardano e ci chiedono perché piangi? E allora ci commuoviamo in silenzio, sorridiamo e ci vien da dire una sola parola: grazie.

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