If You're Not in the Obit, Eat Breakfast, documentario del 2017 diretto da Danny Gold

Nei necrologi si racconta il passaggio della storia, il mutare dei gusti e dei valori

Giacomo Papi

C’è solo un posto dove risplende ancora l’antico potere dei giornali italiani, ed è la pagina seminascosta degli obituaries. Molto più della notizia che qualcuno è morto

Sui quotidiani – che come si sa non sono più quelli di una volta, e vorrei anche vedere – sopravvivono anfratti dove il loro antico potere risplende. Tra questi fortini la sezione dei necrologi resiste con incomparabile eleganza all’assalto quotidiano dei funerali di massa dei social. Gli annunci funebri a pagamento sono ancora, per molti, il luogo dove pubblico e privato si incontrano nel momento più intimo, la morte, e dove la lingua si ribella alle mode cambiando con calma, ma anche il luogo in cui le tragedie epocali si manifestano incontrovertibili, come è accaduto il 13 marzo per le dieci pagine di necrologi dei morti per Covid sull’Eco di Bergamo o per la prima pagina che il 24 maggio il New York Times ha dedicato alle vittime dell’epidemia. I necrologi sono il luogo, infine, dove, almeno in Italia, si disegna la geografia del potere. La mappa attraverso cui, leggendo con un po’ di attenzione, si può ricostruire la rete di amicizie del defunto, le sue proprietà, partecipazioni e clientele.

   

Sul Corriere della Sera la morte di donna Giulia Maria Crespi Paravicini Mozzoni – potente, prepotente, ambientalista, anticonformista, visionaria proprietaria del quotidiano fino al 1974 (oltre che di due immensi Canaletto con veduta del Canal Grande più grande del Canal Grande) e fondatrice del Fai nel 1975 – si è consumata in 194 necrologi distribuiti su tre pagine nell’arco di tre giorni (per un incasso totale che si può stimare intorno ai 40 mila euro). La sintassi dei necrologi, esattamente come quella dei funerali, prevede che l’importanza di chi partecipa al lutto non sia data solo dal fatto di esserci e dal grado di intimità che si può mostrare con l’estinto, ma soprattutto dalla visibilità del posto che si occupa. A dimostrare l’autorità ancora emanata da donna Giulia Maria, il fatto che intimi e famigliari abbiano occupato l’intera prima colonna, costringendo tutti gli altri ad accomodarsi dalla seconda fila in poi.

  

Il primo degli altri – quello in cima alla seconda colonna – è il nuovo padrone, ovviamente: “Il presidente Urbano Cairo”, che “sentitamente partecipa”. Sfilano, poi, nomi e nomignoli – Pupa, Anty, Maly, Kitti e Klaus, Galeazzo, Lupo e Marie – e cognomi multipli (per gli aristocratici la spesa è maggiore: 6,5 euro a parola, quindi a cognome) e cognomi singoli che però spesso coincidono con marchi famosi: Ferrero, Borletti Buitoni, Armani, Zegna, Ferrè, Miuccia Prada, oltre a istituzioni e fondazioni, sindaci ed ex sindaci, primi ministri e signore. Nella terza colonna, malandrino, “Antonio Ricci e tutta Striscia la notizia” salutano “l’amata guatemalteca”, in riferimento agli aggettivi “autoritario, violento e guatemalteco” con cui Indro Montanelli bollò la defenestrazione di Spadolini dalla direzione del Corriere nel 1972. Ah, a proposito: quando Montanelli lanciò il Giornale – cacciato proprio da Giulia Maria e dal direttore di allora Piero Ottone – fece leva anche e proprio sul fatto che mentre il Corriere lucrava sui morti attraverso i necrologi a pagamento, il Giornale avrebbe destinato tutto in beneficenza. (Ora si fa pagare, con il tempo i buoni propositi si annacquano).

  

In Italia la pagina delle necrologie continua a essere centrale, al punto che la battuta di Walter Valdi si conserva attuale più per la morte che per il cinema: “Io del giornale leggo sempre i necrologi e i cinema. Se è morto qualcuno che conosco vado al funerale. Se no vado al cinema”. Sapere chi è morto è ancora una delle più forti motivazioni d’acquisto e una delle ragioni di sopravvivenza dei quotidiani locali. 

  

Per questo, forse, sui giornali italiani – unica gloriosa eccezione italiana la rubrica “Se ne sono andati” di Diario della settimana – non si sono mai sviluppate rubriche di encomi funebri, che invece su quelli anglosassoni abbondano. Se sono a pagamento, in inglese i necrologi hanno addirittura un altro nome. Si chiamano “death notices”, notizie di morte, annunci funebri, distinzione che in italiano non c’è. E’ una differenza che, forse, ha una ragione profonda: un diverso approccio alla morte, quindi alla vita, perché in Italia la relazione con il morto è individuale e famigliare, il dolore privato, mentre sembra meno importante riconoscersi tutti in un ritratto condiviso. Nelle canzoni italiane non c’è nessuna Eleanor Rigby a “raccogliere il riso ai matrimoni” e neppure Father McKenzie a “scrivere sermoni che nessuno ascolterà”.

  

Alden Whitman, il più celebre tra gli scrittori di necrologi del Times, inventore dell’intervista preventiva da pubblicare post mortem, era un signore che girava per New York con un cappello da poliziotto francese e una barbetta appuntita. Chi riceveva le sue visite sapeva che la sua ora era vicina. Dopo avere acconsentito a rilasciargli un’intervista, Alger Hiss, il funzionario americano che nel 1948 fu accusato di essere una spia comunista, disse: “Ho appena ricevuto la visita dell’angelo della morte”. Nel mondo anglosassone l’obituary è un’abitudine, un rito quotidiano di appartenenza alla comunità. Scrisse il premio Pulitzer Russell Baker nella prefazione di The last word, antologia di necrologi del New York Times uscita nel 1999: “E’ meglio che gli obituaries stiano in fondo al giornale, subito dopo i fumetti. “Spesso forniscono l’unico piacere che oggi si può ricavare dalla lettura dei quotidiani e dovrebbero essere assaporati lentamente, tenuti da parte per l’ultima tazza di caffè della colazione”. (Per inciso, è la stessa posizione della rubrica di Diario curata per anni da Andrea Jacchia).

  

Gli obituaries in Gran Bretagna e negli Stati Uniti hanno un valore politico, in alcuni casi perfino legale. Come quando, dopo l’11 settembre, nell’impossibilità di recuperare i corpi, le compagnie di assicurazione americane decisero di accettare come certificati ufficiali di morte gli oltre 1.800 necrologi delle vittime pubblicati per mesi sul New York Times. O come negli anni Settanta, durante il lunghissimo sciopero dei tipografi del Times di Londra che bloccarono per lunghi mesi l’uscita del giornale. Quando lo sciopero finì e i giornalisti tornarono al lavoro si trovarono di fronte a una montagna di morti da smaltire. Per non irritare i lettori e farseli strappare dalla concorrenza dei quotidiani popolari, si decise di allegare al normale quotidiano un poderoso fascicolo speciale fitto dei necrologi arretrati. A Londra non eri morto se il tuo necrologio non usciva sul Times. Malcolm Rutherford, per lunghi anni responsabile della pagina, racconta che una sera giunse in redazione la telefonata del maggiordomo di lord Woodword. Il nobiluomo desiderava avvisare il direttore di non essere sicuro di sopravvivere alla notte.

  

Morire è l’unico momento pubblico della vita della maggior parte degli umani, noti soltanto alla cerchia ristretta della propria famiglia e comunità. I necrologi pubblicati sui giornali rappresentano, cioè, una sterminata Antologia di Spoon River in frantumi dove si racconta il passaggio della storia, il mutare dei gusti e dei valori. Scrive Janice Hume, autrice del monumentale Obituaries in american culture, che raccoglie ottomila necrologi di ottomila sconosciuti morti tra il 1818 e il 1930 (un numero analogo a quello del Libro della memoria di Liliana Picciotto Fargion che regala un nome e una nota a tutti gli ebrei italiani uccisi nei campi di sterminio nazisti): “Nel necrologio di una donna normalmente si scriveva quanto pulita tenesse la casa. Nell’Ottocento si riferivano alla morte adoperando immagini vivide che oggi ci sembrano stupide: “Ella è stata strappata dall’angelo distruttore”. I necrologi sono molto di più della notizia che qualcuno è morto: raccontano ciò che in un dato periodo era considerato di valore nella vita di una persona”.

  

Ma se l’obituary è un ritratto che, mettendo a distanza, definisce l’essenziale, il problema è che l’essenziale cambia nel tempo. Nella seconda metà del Novecento, lentamente, a importare non sono più i ruoli sociali, ma l’eccentricità delle esistenze narrate, come dimostrano i necrologi scelti per The last word dal curatore, Marvin Siegel: “Prima del 1960, le pagine degli obituaries sottolineavano l’importanza delle Colonne della comunità… All’inizio del secolo, i pronunciamenti morali e filosofici di un preside di college potevano essere notizie da prima pagina… Fino a non molto tempo fa, i parenti erano riluttanti a rivelare che i loro cari erano morti di cancro... Gli eufemismi di conseguenza fiorivano e le persone iniziarono a morire ‘dopo lunga malattia’… La stessa riluttanza si ebbe più recentemente con i malati di Aids”. Siegel prosegue narrando di come, nel 1986, il suo quasi omonimo Allan M. Siegal, che aveva il compito di garantire gli standard di qualità del giornale, mise nero su bianco le regole guida per trattare i casi di Aids nei necrologi. Fu solo nel 1992 che fu deciso che il termine “survivors” (i sopravvissuti, i “cari”) potesse essere applicato anche a chi aveva intrattenuto con l’estinto relazioni di tipo omosessuale. L’essenziale, trasformandosi, ridefinisce anche i confini del dicibile e dell’indicibile, cioè del pudore.

   

Le frasi scritte in morte, come nell’epigrafia antica, rappresentano la traccia che resta della vita della maggior parte di noi. Scrive ancora Alden Whitman: “L’obituary non è una biografia completa, né un saggio scolastico, non è un tributo ed è solo in parte lo schizzo di una personalità. Un buon necrologio ha le qualità di un’istantanea messa bene a fuoco, dev’essere il più denso, misurato, il migliore possibile… Se l’istantanea è chiara, chi la osserva trae un veloce orientamento sul soggetto, sui suoi successi, sui suoi difetti e sui suoi tempi. Comporre l’istantanea… richiede tempo e pazienza, bisogna scavare e, infine, ci vuole una certa abilità con le parole”. Abilità di cui, nella tradizione italiana, si può fare quasi a meno perché le necrologie a pagamento devono essere brevi (anche per questione di prezzo) e abbondare di formule di circostanza. Fino a pochi anni fa i morti italiani tornavano “alla casa del Padre”, “strappati all’affetto dei cari”, mentre i vivi “piangono inconsolabili la prematura scomparsa”. In alcuni casi lo fanno ancora, qualche volta con involontario umorismo (di pochi giorni fa il rimpianto per “Franco Fido, valente studioso e amico fedele”), ma oggi lo stile si è fatto più asciutto, anche se ugualmente convenzionale. Niente di più lontano dalla letteratura, insomma. Niente di più prossimo alla pubblicità.

  

In Italia, come detto, al centro della vita – e quindi della morte – ci sono le relazioni personali. Per questo, da noi, la funzione politica del necrologio è addirittura ovvia. Quando il capomafia Stefano Bontade fu ucciso, nel 1980, sul Giornale di Sicilia apparvero soltanto sette necrologi, nessuno dei quali firmato. E invece, quando nel gennaio del 2000 se ne andò Bettino Craxi, qualcuno ebbe coraggio e molti altri no: qualche segreteria della Uil, un paio di comici (Teo Teocoli e Massimo Boldi) e qualche pezzo del mondo della musica (Mario Lavezzi e Caterina Caselli), oltre a una manciata di vecchi compagni e compagne di partito. Ma si tratta di casi limite. La maggior parte dei morti, per fortuna, compattano la società, non la dividono. Quando se ne va una persona famosa, sulle pagine dei necrologi dei quotidiani italiani va in scena una lotta invisibile per esserci ed essere visibili, e accostare il proprio nome, o quello della propria ditta, al nome del morto. Il senso degli affari, naturalmente, non è una prerogativa nazionale. Si racconta che su una lapide nel cimitero di Brooklyn ci sia scritto, più o meno: “Qui giace Walt G. Fraser, marito e padre amorevole, nato nel 1910 e morto nel 1974. La sua celebre drogheria è ancora aperta, 24 hours a day”.

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