"Le maschere" di James Ensor

L'errore grave di punire le maschere

Maurizio Crippa

Blackface e razzismo, sì. Ma teatro e travestimento sono alla base della nostra civiltà

Young and innocent (“Giovane e innocente”) è uno dei film più belli di Hitchcock. Finisce così: l’assassino, indiziato dai testimoni per un tic all’occhio (e già qui, signora mia, che mancanza di rispetto per la diversità) è un bianco, musicista jazz, e per sfuggire ai poliziotti si traveste e va a suonare la batteria in un complessino (di neri). Ma tanta è la paura che lo scovino, che suda freddo e il lucido da scarpe gli cola dalla faccia. Acciuffato. Oggi Hitch l’arresterebbero, assieme al suo protagonista, per denigrazione aggravata (ma andate a controllare l’etimo di denigrare) esercitata attraverso l’insultante pratica del “blackface”, e ci perderemmo ottanta minuti di puro divertimento. Del resto il blackface, dopo un duecento anni di (non) onorato servizio razzistoide nella cultura americana – ma anche di documentato uso autoparodistico, e spesso di utilizzo etnicamente neutrale di un canone dello spettacolo, come è evidente nel caso di Hitchcock – è diventato da molto tempo un problema di correttezza politica serio. Fino ad essere preso fin troppo sul serio. Cioè in modo strumentale e paranoico (i due aggettivi sono spesso sinonimi).

  

 

Il premier canadese Justin Trudeau, a suo modo un brillante irregolare della politica, pare avesse, in gioventù, una vera passione per questo genere di mascheramento, ed è uscita una sua foto in blackface. Aveva anzi una passione smodata, al limite della perversione, perché sono spuntate altre sue immagini atteggiato così. Ma sempre contestualizzate, pare di capire, in situazioni ridanciane, di festicciole in costume, al limite del carnevalesco. Non era a Pontida, o a un raduno del Ku Klux Klan. Mal gliene incoglierà ugualmente, perché l’occidente da alcuni decenni è cambiato (ma persino in Cina si indignano assai se Dolce & Gabbana per uno spot si travestono con gli occhi a mandorla: verrebbe da dire che li hanno fatti neri, ma è chiaro che i problemi farlocchi del linguaggio ormai sovrastano ogni cosa) dai tempi dei Diritti civili di Martin Luther King. Ma ancora di più, è intervenuta una disastrosa involuzione semantica che ha inghiottito il concetto di rappresentazione, di teatro, e di ribaltamento carnascialesco della natura e dei ruoli sociali di cui il travestimento è la materia prima. Ed è una perdita culturale grave. Qualche giorno fa Gucci, con quel che spende in promozione di tutto ciò che nel Mondo nuovo è sinonimo di sostenibile e corretto, è stata travolta da una polemica sui social per via di un maglione-sciarpa nero, che arriva fino al naso, con un buco rosso intorno alle labbra. Un evidente ammicco al blackface, vade retro. E peccato che la moda, anche la più dozzinale, sia una sublimazione del rivestimento in arte del travestimento. 

 

E chissà se di questo passo finalmente metteranno al gabbio i black bloc col passamontagna nero: non perché tirano molotov, ma per evidente citazione abusiva delle Black Panthers. Quest’estate a Verona il soprano americano Tamara Wilson ha scatenato una breve e surreale polemica minacciando il rifiuto di truccarsi il volto di nero per interpretare la schiava etiope Aida. Negli Stati Uniti e in altre parti del mondo questa modalità di trucco e parrucco evoca un atteggiamento discriminatorio e offensivo dell’uomo bianco (l’accusa varrà o è già valsa anche per Turandot, ovviamente) nei confronti di persone con diversa pigmentazione cutanea. Questo ha argomentato il soprano Wilson, probabilmente del tutto ignara del fatto che quando Verdi scrisse l’opera, nell’Europa dell’Ottocento, e poi per migliaia di repliche nel mondo, il trucco di scena – dettato dal plot – non costituiva un problema di correttezza etnica. Al Globe attori maschi interpretavano i ruoli femminili, e lo stesso accadeva nel teatro greco: faceva parte dell’armamentario di scena. Il travestimento è componente plurimillenaria del teatro. Metteremo fuorilegge Shakespeare per scorrettezza di genere? (Sì, ci hanno già provato).

 

Ancora più antico e arcaio è il côté dell’irrisione, e anche della polemica fino alla guerra figurata tra gruppi sociali, che riguarda il travestimento in caso di feste, cerimonie carnevalesche o di altro tipo. Dai riti apotropaici in giù, fino agli scherzi in festicciole private e all’avanspettacolo da privé. Travestirsi da qualcun altro fa parte della più profonda conoscenza dell’identità umana in tutte le latitudini e culture. E non è sempre, per forza, razzismo. Non ci vuole una laurea in antropologia (e dire che in Canada gli studi etnoculturali sono coltivatissimi) per saperlo. Lo si può fare a scopo magico-religioso, come gli sciamani delle tribù primitive, oppure per sublimare i propri sogni o incertezze da adolescenti consumisti, come le teenager che si vestono à la Ariana Grande e pretendono di andarci a scuola. Lo si fa spesso per irridere il nemico sociale, come succede in cortei e manifestazioni. Il carnevale in Europa è stato per secoli occasione di liberatoria esibizione per papesse e per lubrichi cardinali. Di solito erano i contadini a farsi beffe dei signori, semel in anno, ma avveniva anche il contrario, coi padroni vestiti da cafoni: ogni scherzo (e travestimento) vale per tutti, in condizioni di festiva parità.

 

Ovviamente nessuno negherà che nel blackface che andava di gran moda nella cultura degli Stati Uniti, in special modo del sud, non sussistesse – o ancora possa sussistere – una componente esplicitamente razzista. E nemmeno si pretenderà di affermare che le sensibilità culturali e linguistiche non siano mutate, e con ampie ragioni, dai tempi in cui Conrad scriveva The Nigger of the Narcissus, e nessuno apriva un processo. Ma, dato per scontato (poi al massimo qualche zelante militante canadese della correctness ci smentirà) che Justin Trudeau non sia un incosciente razzista, il caso delle sue foto di molti anni fa con la faccia pittata si inseriscono in una diversa dimensione, che appartiene al divertimento e allo scherzo en travesti. Può essere, al massimo, di cattivo gusto. Ma una società che ha smarrito la capacità di distinguere l’insulto razziale dal travestimento, teatro o carnevale, come una delle proprie radici antropologiche e culturali è una società che ha un problema serio di autocomprensione. Pronta a passare dal registro dello scherzo al regime della punizione. Meglio ricordarsi che il carnevale viene prima della quaresima.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"