“Settembre 1972” di Imre Oravecz

“Settembre 1972”, nuova perla della letteratura magiara

Vanni Santoni

Imre Oravecz ci insegna che ogni storia ben scritta è degna di essere raccontata

Quando si parla di letteratura ungherese contemporanea, la mente va subito ad atmosfere astratte e oscure, che siano quelle più ricercate di László Krasznahorkai (autore che, dopo la scoperta da parte del Man Booker Prize International, ha visto un piccolo ma significativo revival anche da noi, con la pubblicazione presso Bompiani di due dei suoi massimi lavori, “Satantango” e “Melancolia della resistenza”) o quelle più accessibili, ma sempre umbratili e psicotiche, dell’Ágota Kristóf della “Trilogia della città di K”. Un’oscurità che trae la propria astrattezza da un topos prettamente ungherese – lo si ritrova anche nel “Boscomatto” del decano Ádám Bodor, da poco proposto dal Saggiatore, e financo in alcuni lavori dei “genitori nobili” Szabo e Márai –: quello del luogo senza nome e senza tempo, sospeso fuori dalla storia, in un campo immancabilmente fatto di fango e tragedia.

 

Così, confrontarsi con “Settembre 1972”, capolavoro di Imre Oravecz riproposto, nella traduzione di Vera Gheno e a trentuno anni dall’uscita originale (quindici dalla prima italiana) da quella Anfora Edizioni che in sordina ha già portato da noi pezzi pregiati della letteratura magiara, non è questione scontata neanche per l’appassionato della letteratura di là. Oravecz non presenta infatti solo una vicenda che si svolge in ambiti del tutto ordinari, ma addirittura un romanzo d’amore. Ecco che tra i lettori si alza qualche pelo; che qualche epidermide prende la grana del tacchino o dell’oca: certo oggi le prime cose che vengono in mente al sentire quelle parole sono i “rosa” da edicola, la loro versione moderna in grigio e sue sfumature, i metri sopra il cielo più le imitazioni seguite negli anni, o ancora la chick-lit che di recente si usa spacciare per literary fiction. Niente di tutto questo. Se è lontana l’epoca in cui, per via dell’urgenza della carnalità, il genere s’ibridava con la grande letteratura per mano di Miller o Nin, Oravecz dimostra che ancora oggi si può scrivere un bellissimo romanzo d’amore senza essere retorici o melensi, né concedere niente ai cliché di un genere che definire abusato è dir poco.

 

Sarebbe del resto difficile ridurre a “genere” “Settembre 1972” anche in senso più ampio: non si può infatti affermare con troppa certezza che si stia parlando di un romanzo, dato che il libro si compone di novantadue “quadri” che hanno il sapore della prose poetry (se non proprio di una poesia che si fa prosa solo in traduzione), né dall’altro lato si può parlare facilmente di poema o silloge, data la pressante tensione narrativa che lega questi quadri anche quando lontani tra loro nel tempo o nello spazio.

 

La storia, volendo, è una “storia da romanzo” nell’accezione più deteriore dell’espressione: due persone si amano, poi si amano di meno, poi arrivano al tradimento, infine si rifugiano tra le braccia d’altri (e altri ancora), pur conservando dentro di sé, in un modo o nell’altro, traccia e ricordo di quel “prima” vissuto da entrambi e all’epoca così prezioso. Se non è la storia di tutti e di tutte, lo è almeno di molte e di molti. Ma come avviene nella miglior letteratura, a ennesima conferma del fatto che non esistono storie abbastanza buone da essere raccontate in ogni modo, ma che, se si racconta abbastanza bene, qualunque storia può essere del massimo interesse, la vicenda è la cosa meno importante del libro, rispetto a lingua, struttura e capacità di sovrapporre, mettere in comunicazione e far danzare l’uno sull’altro i vari piani simbolici, emotivi e psicologici per arrivare a un assoluto che riguarda tutti, proprio per le sue specificità.

 

Nonostante tanta raffinatezza, “Settembre 1972” è anche un libro che in Ungheria è andato in ristampa il giorno dopo l’uscita: cosa renda così virtuoso il pubblico di quest’area geografica (penso anche al capolavoro del bulgaro Georgi Gospodinov “Fisica della malinconia”, che ebbe il medesimo destino) è difficile dire, ma di certo è capace di riconoscere i capolavori, che negli ultimi tre decenni sono spuntati più spesso da queste parti (aggiungiamo anche “Abbacinante. L’ala sinistra” del romeno Mircea Cărtărescu?) che altrove.