La tomba di James Joyce a Zurigo. Foto di Nicholas Hartmann, creative common

“Finnegans Wake” finalmente torna in libreria

Antonio Gurrado

L’enigma più bello. Diciassette anni per scriverlo, ottanta per tradurlo

Diciassette anni per scriverlo, ottanta per tradurlo: arriva oggi in libreria un romanzo che ha percorso un secolo intero, durante il quale è stato considerato invalicabile confine del genio sperimentale o insostenibile produzione di un ciarlatano troppo ambizioso. Mondadori fa uscire l’ultimo volume della traduzione di “Finnegans Wake” nell’ottantesimo anniversario della sua apparizione al mondo, il 4 maggio 1939, consapevole che a tanta distanza lo choc narrativo non sarà lo stesso ma l’impatto editoriale, se possibile, superiore.

   

Il testo originale di Joyce, 628 pagine, si è trasformato in cinque volumi sempre più corposi, trasudanti note immaginifiche, spiegazioni dotte, un labirinto di nozioni stratificate e glossari malleabili rivolto a un lettore ideale che forse non esiste più, forse non esiste ancora; impresa che richiede alla casa editrice un ardimento non inferiore a quello dei traduttori, modestamente sottinteso nell’asciutta “Avvertenza” su cui il volume si apre. Aveva iniziato Luigi Schenoni nel 1982, con un primo tomo financo smilzo se considerato a posteriori, proponendo una versione che Umberto Eco trovava neogaddiana e invitando il lettore a giocare con le note esplicative sparse in un disordine ben articolato, così da associarle creativamente agli oscuri riferimenti del testo. La sua opera si è fermata a metà, col terzo volume uscito nel 2011, tre anni dopo la morte. Hanno proceduto Enrico Terrinoni e Fabio Pedone creandoci attorno un gioco ancor più sofisticato, con appelli alla traduzione creativa, appositi concorsi sui giornali, gruppi Facebook, consultazioni per tradurre un ostico trisillabo che potevano coinvolgere suggeritori a decine fra i più disparati, da Eduardo Camurri ad Alessandro Bergonzoni.

   

Il merito dei traduttori è indubbio e solo la lettura del testo può renderne l’idea; ma il merito dell’editore sta nell’aver sottratto un romanzo al binario morto dello sperimentalismo, condannato a letture esegetiche di noiose gerarchie accademiche, per restituirlo al fondamentale diritto del lettore: alzare la mano e dire che quella parola, quella frase che nessuno capisce gli sembra schiudere un significato inedito. Poiché sulle prime nessuno ci capisce niente, ognuna di queste ipotesi è giusta in quanto il senso di “Finnegans Wake” non si costruisce sceverandolo dalle interpretazioni errate, bensì accumulando su ogni parola sottintesi, riferimenti, citazioni, parodie, storie e significati che, una volta richiuso il libro, tornano a essere inconciliabili. L’edizione italiana presenta addirittura ipotesi contraddittorie riguardo alla lingua in cui il libro è scritto: per Stefano Bartezzaghi in finneganese, idioma inventato da Joyce; per Terrinoni, in una lingua inesistente poiché non può essere insegnata; Pedone sottolinea il carattere grafico con cui alcune pagine tendono a voler essere guardate più che lette; la critica tradizionale ha sottolineato la necessità di ascoltarlo come musica per coglierne i soundsense; Schenoni, buonanima, era convinto che i calembour di Joyce fossero impiantati su una base solidissima, l’inglese, trascinato e dilatato fino allo stremo. Diciassette anni per scriverlo, ottanta per tradurlo e chissà ancora quanti per riuscire a capire in che lingua sia scritto il libro più bello del mondo, l’unico il cui autore e traduttore è sempre il prossimo lettore che lo aprirà per la prima volta; pur di procurargli questo piacere, vale la pena di rischiare che non lo legga nessuno. 

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