Quanta invidia per Martin Amis e la sua sfacciata capacità di leggere
Un libro dello scrittore britannico traccia la linea di confine tra sé e i recensori da weekend
Dice Martin Amis – lo scrive ne L’attrito del tempo, Saggi e reportage 1986-2016 (Einaudi, 377 pp., 22 euro) – che i soli Omero e Harper Lee sfuggono alla regola del cinquanta per cento, perché con tutti gli altri non va così. Con tutti gli altri noi mentiamo, ci avvinghiamo all’iperbole e cediamo sovranità all’arrotondamento per eccesso: insomma, la facciamo sempre un po’ più grossa di quello che è quando dichiariamo di amare i libri di un autore, perché a conti fatti, se va bene, ne apprezziamo uno su due. La gigantesca figura di Joyce – prosegue Amis – fa affidamento quasi unicamente sul valore di Ulisse (“Finnegans Wake”, “quel budino freddo”, venne accolto con cauto rispetto ed elogi terrorizzati, per dirla con Borges); ogni pagina di Dickens contiene un paragrafo che ci ammalia e uno che ci respinge; tutto il Kafka che conta non è nei tre tentativi romanzeschi “lasciati a metà da lui e da noi” (e qui potrei citare due amici disposti a lavare col sangue questo giudizio, e a farlo con un bel duello all’alba, in quell’aria color malva che ha la campagna in certi indescrivibili periodi dell’anno descritti splendidamente da certi scrittori che io ammiro, e ribadisco, ammiro, al cento per cento). Perfino l’autore preferito di Amis – conclude Amis – cioè William Shakespeare, non si sottrae a questa legge. Ai più tocca in ogni caso questo tragico destino: trasformarsi. Da argute guide turistiche, a tassisti logorroici e trafficoni disposti al raggiro. Ma bisogna far pace anche con questa frequentatissima deriva perché “i grandi scrittori sono in grado di portarci ovunque, ma metà delle volte ci portano dove non vogliamo andare”.
Quale sia il luogo che vogliate raggiungere comprando questo libro, sappiate che anche quando Martin Amis vi porterà proprio dove volevate andare, non sarà mai esattamente dove volevate andare. Perché farà di testa sua. E si fermerà prima della destinazione o proseguirà poco oltre. Ma sarà solo per farvi divertire, per farvi scoprire una nuova strada, per rivelarvi un curioso viottolo tra le righe, un luminoso pianoro descrittivo, una paragrafo sommitale, un precipizio a sghembo, un angolo di pagina raramente battuto.
È una vertiginosa guida turistica, Martin Amis, capace di farsi seguire con agio anche nelle più ripide ascese, abile nel rigenerare il panorama più noto e nell’accompagnarci con intelligenza tra le pagine di romanzi famosi o alla scoperta di grandi autori, ovviamente senza dimenticare di mandarci in sollucchero col suo impetuoso sarcasmo, magari mentre ci invita alla decapitazione di Donald Trump (o meglio, della prosa di Donald Trump, con conseguente tragicomica analisi del suo stato mentale paranoide-narcisistico) o a una gita inusuale a Pornoland in compagnia di Chloe, alla ricerca di un Dieguito Maradona ormai enfia caricatura di se stesso o a bordo di un frigorifero motorizzato (in Nevada li chiamano taxi) che ci scorti nella notte di Las Vegas tra “batoste per un tris di cinque”, ragazze con hotpant militari satinati e vacanzieri culoni. O perfino mentre ci presenta John Travolta, perché in fondo “è un po’ come entrare in un poster di Warhol” fare ingresso nella villa di questo garbato milionario che vive da miliardario, seppur in costante caduta artistica.
Ma è quando incontra la Letteratura, che si tratti di Philip Roth (il cui romanzo Pastorale americana definisce “di rigogliosa, vittoriana vastità”), di Vladimir Nabokov (mirabile elaborazione: la “ninfolessia”), della Jane Austen di Orgoglio e pregiudizio (“quando la leggo mi trasformo in un purista del periodo della Reggenza”) o di raccontare un book tour, che Martin Amis traccia nell’aria un’invalicabile linea di confine tra sé e la massa sfiatata dei recensori da weekend, nani da giardino semi-culturale. E’ lì che ci dimostra cosa significhi avere sangue e cognizione, battito sintattico e senso del martelletto argomentativo. Ed è attraversando quelle pagine che non se ne invidia soltanto la trionfante capacità di scrivere (puro estro balistico: m’è capitato per almeno tre romanzi su quattro, alla faccia della regola del cinquanta) ma anche – e soprattutto – l’esuberante e sfacciata capacità di leggere.