Parigi, maggio 1929. Lucia Joyce (Trieste, 26 luglio 1907 – Northampton, 12 dicembre 1982) al Bullier Ball (foto per gentile concessione della Nave di Teseo)

La sirena spezzata

Marinella Guatterini

La vita, gli amori e la malattia di Lucia Joyce sono ancora un mistero. Trasformò il suo corpo in poesia ma non riuscì a contenerne il dolore

Lucia Anna Joyce chi fu costei? Il cognome è già un indizio e va seguito. Davvero Lucia – nata a Trieste il 26 luglio 1907 e scomparsa il 12 dicembre 1982 al St Andrew’s Hospital di Northamton, nel Regno Unito – fu la secondogenita di James Joyce, il geniale vate del “flusso di coscienza”, che forse più di chiunque altro, nella letteratura del secolo scorso, diede una svolta “musicale”, persino fisica e “carnale” alla scrittura: basti pensare allo straordinario monologo di Molly Bloom che conclude Ulysses.

 

La sua vita riappare dalle nebbie grazie a “Corpi Speciali”: una collezione di incontri a firma Francesca d’Aloja

Il nome di Lucia è riapparso dalle nebbie dalle quali di volta in volta emerge, per poi esserne di nuovo inghiottito, grazie a “Corpi Speciali”: una collezione di incontri (editi da “La nave di Teseo”) con personaggi conosciuti, o solo dantescamente vagheggiati “per incantamento”, a firma Francesca d’Aloja, pure attrice e regista. Ciò che accomuna questi suoi quindici diversissimi “corpi speciali” è il loro destino fortunato o fallimentare, le loro sfide vinte o perdute, il loro talento, i loro misteri. La fascinazione per Lucia Joyce nasce nell’appassionata D’Aloja, dalla visione di un’immagine: magnifica, in verità. Una bellissima ragazza è intenta a danzare. L’occhio della fotografa Berenice Abbott, assistente di Man Ray, coglie la figlia di Joyce, in un imprecisato mese del 1928, mentre prova l’assolo che l’anno successivo l’avrebbe portata sul trono delle sei finaliste al primo festival internazionale di danza al Bal Bullier, nel quartiere Latino di Parigi. Lo scatto, per quanto statico, suggerisce tensione e anelito al movimento che verrà. Il costume – ideato e confezionato dalla stessa Lucia – è tutto ornato da “squame” moiré d’argento, con una calotta aderente in testa, anch’essa intessuta di scaglie, dalla quale pendono lunghe ciocche di capelli biondissimi. E’ La Sirena, questo il titolo “dell’incontro” della D’Aloja, così intensa e interiormente concentrata, da aver trasformato il suo corpo in una poetica immagine selvaggia.

 

Sappiamo che Lucia non vinse quel premio, ma il pubblico, che includeva suo padre e Samuel Beckett, il giovane irlandese all’epoca segretario dell’Irlandese maggiore, sostenne la sua esibizione. Protestò vivacemente contro il verdetto della giuria. Quello era stato l’impressionante debutto di una danzatrice “libera”, molto più originale di tante che ve ne furono in quegli anni segnati dalla rivoluzione di Rudolf Laban, il teorico, e non solo, che affermò che “ogni uomo è un danzatore” e dagli esempi spettacolari della leggendaria Isadora Duncan. Eppure di lì a qualche anno Lucia, danzatrice di provato talento, sprofondò in un disagio esistenziale dal quale non si riebbe sino alla morte.

 

Un dedalo di confuse diagnosi: dementia praecox, schizofrenia, catatonia, nevrosi, isteria, dipendenza da droghe, spostarono il suo “caso” in un campo psichico e psichiatrico che nel primi trent’anni del secolo scorso viaggiava ancora su gambe traballanti. Ventiquattro medici interpellati, dodici infermieri, tre istituti nei quali sopportò dalla camicia di forza all’elettro-shock, e una quantità di sterline spese da Joyce per salvare quella sua faglia amatissima e per la quale provò un torturante rimorso sin dal primo ricovero, nel 1932, non sortirono alcun effetto. Curiosa, se non fosse tragica, l’ultima speranza riposta dallo scrittore proprio in colui che aveva giudicato il suo Ulysses opera di una persona “con severe restrizioni cerebrali”, capace esclusivamente di “pensiero viscerale”, e che ha composto “col sistema nervoso simpatico per mancanza del cervello”. Ahinoi… il luminare era Carl Gustav Jung, e anche lui fallì.

 

Dopo quattro mesi di terapia gettò la spugna: quasi vent’anni dopo dichiarò che Lucia in qualche modo era rimasta intrappolata nella psiche del padre James senza essere in grado di emergerne in maniera indipendente. Tuttavia, come osservò la psicologa Alessia Ghisi Migliari in un suo bel saggio del 2012, “se è indubbio che nel rapporto genitore-figlia vi siano importanti elementi per spiegare la storia di Lucia, non si vuole trovare per forza in questo puzzle una causa. Si può solo raccontare: poiché ancora oggi non siamo in grado di stabilire con chiarezza cosa turbasse Lucia”. Il mistero s’infittisce e conviene ricominciare da capo, in compagnia della D’Aloja ma anche della dettagliatissima, quanto controversa biografia “Lucia Joyce. To Dance in the Wake” (2003) di Carol Loeb Shloss, studiosa americana di Joyce, accusata di aver sin troppo inneggiato allo stretto legame tra James e Lucia in specie nella creazione del Finnegans Wake.

 

I primi dieci anni della sua vita furono segnati dalla povertà, dall’assenza di cibo, da un totale disordine famigliare

I primi dieci anni della vita di Lucia furono segnati dalla povertà, dall’assenza di cibo, da un totale disordine famigliare, da un continuo spostamento in squallidi hotel e appartamenti di fortuna, dalla stretta intimità con Giorgio, il fratello nato due anni prima di lei, e dai rifiuti affettivi della madre. Joyce anticonformista, non religioso, era scappato dalla natia Dublino nel 1904 e riparò a Trieste con Nora, la cameriera, pure irlandese di Galway, incolta, sexy e religiosa, dalla quale non si separò mai, nonostante i tradimenti (reciproci), la gelosia (reciproca) e l’alcolismo di lui. James sposò Nora a Londra nel 1931, creando nell’equilibrio psichico, all’epoca ormai sottosopra di Lucia, un ulteriore, involontario, choc. Lucia si credette “una bastarda”, nonostante sapesse sin troppo bene che tutte le attenzioni di Nora-madre erano rivolte a Giorgio e quelle di James-padre a lei, cullata sin da piccola con canzoncine in italiano e considerata in pubblico “la persona più intelligente che conosca”.

 

Gli anni della Prima guerra mondiale costrinsero i Joyce dapprima a Zurigo e poi, con la crescita della fama e delle economie dello scrittore, a Parigi. Nella Ville Lumière, la quindicenne Lucia che oramai sapeva parlare in inglese, francese, tedesco e dialetto triestino (bene o male? altra vexata quaestio), iniziò la sua carriera di danzatrice. Molto coerente, all’inizio: l’iscrizione all’Istituto Dalcroze di Parigi fu una scelta indovinata. Il viennese-svizzero Émile Jaques-Dalcroze, insegnante di solfeggio e armonia al Conservatorio di Ginevra, aveva elaborato un sistema pedagogico (euritmica) che permette di acquisire attraverso il ritmo e la musica, la consapevolezza estetica, emotiva e creativa del movimento, anche solo camminando e correndo. Lucia che sin da piccola aveva dimostrato attitudine agli sport e alla ginnastica, ne trasse giovamento: imparò anche l’importanza della respirazione nella danza. Perfezionò lo studio del pianoforte mentre costruiva brevi e buffi sketch mimici con gli abiti rubati al padre. Nel 1924, uno di questi, dedicato al prediletto Charlie Chaplin, divenne un suo breve saggio: “Charlie et les gosses” (Charlie e i bambini) che rivide la luce nel 1985, tre anni dopo la sua morte.

 

Ma torniamo alla danza. Nel 1922 un inatteso soggiorno in Irlanda, di quattro mesi, gettarono Lucia nell’avventura vegetariana e olistica di George Hebert, promotore di un metodo di training fisico all’aria aperta e in contatto con la natura. Fu solo un assaggio di ciò che attendeva la figlia di Joyce a Parigi, quando si unì alla “setta” di Raymond Duncan, il fratello maggiore della ben più nota Isadora. Raymond, soprattutto musicista, colto, fervente nietzschiano, appassionato dell’antica Grecia come tutta la famiglia Duncan, non fu “uno dei coreografi più in vista di Parigi” (come pure scrive la D’Aloja), ma piuttosto un fertile istigatore per giovani donzelle in cerca di quella danza libera e di quella libertà nei costumi sociali di cui egli stesso – capelli lunghi sino alle spalle, sandali ai piedi e tunica come abito d’ordinanza – si fece narcisistico modello. Non possedeva la genialità coreutica delle sorelle – Isadora ma anche Elizabeth, fervida pedagoga – né si può immaginare quali movimenti possa aver insegnato a Lucia, se non ricalcando l’esempio femminile di casa, tradotto in una ginnastica che conduceva dritta dritta a copiare le forme e le tensioni dei corpi nella pittura vascolare greca, ma anche a non separare l’arte dalla vita. Non facile esercizio di rigore intellettuale e fisico, per Lucia, nel suo nevrotico ambiente famigliare. Ma lei non si diede per vinta: creò danze e costumi per sé, e nel 1925 scoprì la scuola parigina dell’inglese Margaret Morris, la nipote del poliedrico artista William Morris, una duncaniana più vicina all’espressività di Isadora che non alle sei posizioni di danza della Grecia classica, vera ossessione di Raymond.

 

L’avventura vegetariana e olistica con George Hebert e poi l’incontro con la setta di Raymond Duncan, il fratello di Isadora

In questo centro Lucia fu spronata a diventare una sperimentatrice di professione, consapevole di essere parte di un movimento modernista, crocevia di un dibattito artistico sul futuro della danza anti-accademica e delle arti in generale. Lavorò intensamente sino all’aprile del 1926, quando incoraggiata dalla stessa Morris fondò a Saint-Paul-de-Vence, in una comune di hippie post-vittoriane e con altre colleghe, “Les Six de rythme et couleur”, assonante con il Gruppo dei Sei (compositori formatisi sotto l’ala protettiva di Erik Satie). L’ensemble del “ritmo e del colore” non era dedito solo all’arte del movimento, ma anche alla musica, alla pittura, al canto, alla poesia e alla scrittura di saggi che, diffusi, ebbero sostenitori nel mondo. La loro prima performance, al Théàtre des Champs Elysées di Parigi, ci dice la Schloss fu molto ambiziosa, ma ben accolta da pubblico e stampa. Comprendeva dodici pezzi di danza, mimo e parodia su musiche, tra l’altro, di Brahms, Ravel, Scarlatti, Stravinskij e Debussy. Lucia danzò nei ruoli a lei più congeniali: in Ballet faunesque, Les Vignes sauvages e in Prêtresse primitive “dimostrando una straordinaria fluidità nel canalizzare la sua inquietudine interiore ora nella presenza quasi impalpabile di un corpo fragile, ora in una rabbiosa allucinazione quando restituiva i ritmi ossessivi e i movimenti bruschi del primitivo Prêtresse”. Ormai aveva trovato il suo stile, la sua poetica nel movimento.

 

Nulla sappiamo dell’esito delle tournée delle “Six de rythme et couleur” a Genova, Roma, Bergamo e Trieste dove danzarono– correva l’anno 1928 – Le Jardin enchanté su musica di Ravel e Le Combat d’un faune et d’une faunesse su musica di Joaquin Turina. Ma la puntuale Schloss ci informa che già un anno prima Lucia, nell’ansia di perfezionare la sua tecnica, aveva cominciato a prendere lezioni da Jean Börlin, straordinario danzatore e geniale coreografo dei Ballet Suédois. L’impresario Rolf De Maré aveva creato per lui questa compagnia importante, dalla breve vita (1920-1925), ma rivale dei Ballet Russes di Sergej Djagilev. Nella capitale francese, il generoso Börlin offriva, nelle sue lezioni, un misto di danse d’école e di movimenti senza codice. Lucia come tanti altri danzatori creativi all’inizio non accademici – Kurt Jooss, ad esempio, il grande maestro di Pina Bausch – non credeva affatto che la danza libera fosse una religione esclusivista e da Börlin imparò molto.

 

Lucia coltivò anche amori saffici, però amava più di tutti Beckett. Lui non sopportava l’idea di essere l’ombra di suo padre

Vero passo falso fu invece l’accostarsi all’étoile Lubov Egorova, proveniente dal Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. Il suo insegnamento iniziava nell’infanzia, a otto anni. Lucia era già ventiduenne e per quanto lavorasse sei ore al giorno non acquisì che frustrazione, giungendo all’autodistruttiva certezza di avere un fisico debole e inadatto a ogni sorta di danza. Un mese di lacrime e nel 1931 una decisione irremovibile – quella di non danzare più – fecero annegare la Sirena, nonostante gli inviti della Morris, di Elizabeth Duncan a seguirla a Francoforte e l’attività delle “Six du rythme et couleur”. Un concorso di colpa in questo inabissarsi nei flutti del disagio mentale l’ebbero tutti i suoi amori sfortunati: Samuel Beckett, Alexander Calder, Albert Hubbell, il russo Alec Panikovskij che avrebbe voluto sposarla, ma lei rifiutò. Lucia coltivò anche amori saffici, però amava più di tutti Beckett (di cui si sospetta rimase incinta e abortì); lui all’epoca liberino, dichiarò che non sopportava l’idea di essere l’ombra di un altro (Joyce), pur conservando per tutta la vita l’immagine della Sirena nel suo portafoglio.

 

Quale fu, invece, il vero rapporto di Joyce e Lucia? Il padre tentò di farla scrivere, di farle decorare con lettere o lettrines alcuni suoi testi. Sembra evidente che la presenza di lei deve essere stata determinante mentre ballava nella stessa stanza in cui lui scriveva “Finnegans Wake”: un libro musicale, linguisticamente incomprensibile, ma come scrisse Beckett: un testo “non su qualcosa, ma che esso stesso è la cosa”, esattamente come una danza. Joyce lo sapeva e lo ammise. Fu l’unico a occuparsi di lei dopo il precipizio: la madre e il fratello la ignorarono. Anzi Stephen, il figlio di Giorgio, dichiarò nel 1990, con alle spalle un legale, che la lunga corrispondenza tra Joyce e Lucia, fatto privato, avrebbe potuto essere svelata solo dopo cinquant’anni. Fortunatamente perse la causa. Ciò che è rimasto dalle fiamme appiccate da Nora e Giorgio ai materiali in comune tra James e Lucia è di pubblico dominio. Ma ormai ciò che si deve sapere è che nella storia della danza arte onnivora, totalizzante – furono molti i casi di morte cerebrale prima della morte vera, a cominciare da Vaslav Nijinskij, le dieu de la danse della prima metà del XX secolo, da Olga Spessiva, eterea étoile scappata dalla Russia e da una vita tormentata, dal povero Félix Fernández García, un grande del flamenco, cui il coreografo Léonide Massine impedì di andare in scena coi Ballets Russes, dopo averne rubato tutto il sapere sul suo baile ispanico. Il non poter danzare a causa di travagli esterni, pur avendone impellente necessità, può essere letale. Il resto è materia per psicologi e psichiatri, e forse non appartiene alla bellissima Sirena.