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Confessioni degli altri

Marco Archetti

Pregi e limiti di “Transiti”, il romanzo di Rachel Cusk 

Lo dico chiaramente: invidio Rachel Cusk. Non tanto per la sua nuova casa di Londra, della cui laboriosa ristrutturazione ci rende edotti nel nuovo romanzo “Transiti” (Einaudi Stile Libero, 195 pagine , 17 euro) insieme alle conversazioni col suo loquace parrucchiere Dale, che spennellando ciocche le racconta un’epifania sulla vanità del capodanno che io stesso ho avuto, identica, più di una volta – a differenza mia, Dale ha avuto il coraggio di andare fino in fondo, col risultato poi di barcollare per mesi in una “nebbia di compassione per la specie umana”.

 

Non la invidio per il sarcasmo del direttore dei lavori che, dopo una mitragliata di battutacce sullo stato della casa, la tramortisce sotto la lapide finale della sincerità, confessandole: “Non si è resa la vita facile. E’ un peccato che lei si sobbarchi tutto questo. In ogni caso può rimetterla sul mercato e lasciare che se la prenda qualche altro idiota”. Non la invidio neppure per il festival letterario cui, nel bel mezzo della ristrutturazione, ci racconta d’aver dovuto partecipare, sopravvivendo a logorree vane, pioggia, seduzioni da fine serata e una considerazione sulle presentazioni di libri che però meriterebbe di essere incorniciata (“A volte si domandava cosa ne venisse al pubblico dagli incontri letterari. Ne aveva moderati alcuni e ne aveva viste di tutti i colori: persone che dormivano come sassi in prima fila russando pesantemente; gente che chiacchierava mentre sul palco gli scrittori stavano parlando; gente che lavorava a maglia, e una volta persino un tizio che leggeva un libro”).

 

 

 

Men che meno posso invidiarle i rapporti coi bellicosi e sputazzanti abitatori del seminterrato o il fatto di essere obbligata ad avere a che fare con Jane, una dei dodici allievi del corso di scrittura che, seduta su un divano, inaugura una letale effusione monologante annunciando: “Ho settecento pagine di appunti sullo sconosciuto pittore Mardsen Hartley, non vedo l’ora di passare alla scrittura vera e propria”. Non la invidio per tutto questo – raccontato in un romanzo costituito dal susseguirsi dei piccoli romanzi-confessione delle persone in cui la scrittrice di volta in volta incappa – ma la invidio perché chiunque, e dico chiunque, entri in contatto con lei, stimolato dal suo atteggiamento maieutico ha sempre dichiarazioni intelligenti da rilasciarle, rivelazioni pindariche, riflessioni-deltaplano, slanci di aeronautica vastità.

 

La invidio perché, quando ho ristrutturato casa io, ho trattato solo con energumeni arroganti e ho dovuto ingaggiare duelli rusticani per farmi rilasciare fattura, nel frattempo il mio barbiere mi derideva e continuava a seccarmi col fatto che dovessi scrivere il romanzo della sua vita e piantarla con le mie stronzate. “Ogni lettore si avvicina a un libro come un estraneo che devi convincere a restare” si legge in “Transiti”, e lo voglio sottolineare: io sono restato fino in fondo, perché non solo Cusk sa tenere in mano la penna, ma è proprio abile, forse un po’ troppo pulitina però ha fulmineità sintetica e spesso mi ha strappato risatine e pneumo-diesis di ammirazione – uno su tutti, il capitolo che parla di Amanda e degli scartavetranti albanesi, davvero splendido. Il romanzo ha, insomma, molti pregi, primo tra tutti rendere conto del grande circo del mondo e dei nostri trapezismi quotidiani, degli arrotondamenti per difetto che sono tutte le esistenze. Ma ha un limite: li resoconta e non li manipola. O per meglio dire: li registra e non li requisisce, non li compagina. Cusk dovrebbe essere rapace ma è timida, e sembra voler rinunciare a immettere il filo delle esistenze altrui nella propria cruna e a perseguire l’unica finalità valida per uno scrittore, quella di rapinare a mano armata per appropriarsi di un significato raschiato via dalla pelle altrui, da usare – sì, usare – secondo intenzione. Può uno scrittore non mettersi “in mezzo”? E poi perché i romanzi che vengono battezzati come “reinvenzioni del genere” hanno quasi sempre scritture di ottima fattura ma a conti fatti non smettono di sembrarmi i sintomi sofisticati di un’abdicazione? Non tanto alla possibilità, ma alla gioia di raccontare davvero: quella di raccontare fino in fondo.

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