Arriva la seconda stagione dell'Amica geniale. E la sua storia è la nostra

Cominciano le riprese a Port’Alba. Al di là dei siparietti, dei numeri degli ascolti, delle piccole polemiche con i commercianti, resta una storia poderosa della quale è inevitabile che qualcosa ci resti addosso

Giulia Ciarapica

Siamo rimasti incollati davanti alla tv, tutti, anche chi non aveva letto la tetralogia, anche chi – o forse soprattutto chi – su Elena Ferrante ha sempre nutrito dubbi, perplessità e persino un filo di inspiegabile – immotivata? – ostilità (per intenderci, certi scrittori nostrani, fin da subito, si sono affrettati a dire che su, ammettiamolo, la Ferrante è davvero sopravvalutata, cos’ha poi di straordinario quest’autrice che non sappiamo neanche chi sia, la ammiriamo soltanto perché in America ha successo e allora ce ne siamo appassionati di riflesso. E va beh).

    

Ma bisogna ammettere, volenti o nolenti, che con la sua serie tv Saverio Costanzo ha fatto davvero centro, e infatti tutti ci siamo chiesti se avrebbe girato anche la seconda parte dell’Amica geniale, “Storia del nuovo cognome”. Rai e Hbo hanno detto sì, dando così il via alle riprese che per il momento si sono spostate a Port’Alba (non senza le polemiche dei commercianti, che protestano perché dovranno rimuovere per un certo periodo le loro “bancarelle”, così che il luogo torni ad assumere le sembianze di un tempo).

   

   

Al di là dei siparietti che sono stati improntati attorno a questa serie e alla sua trasposizione televisiva, al di là dei numeri, degli ascolti e di tutto quello che si ipotizza sull’identità della Ferrante, restano dei personaggi indimenticabili, dei luoghi tanto vicini quanto irraggiungibili, resta una storia poderosa, che si dispiega in quattro volumi e a cui il lettore non può fare a meno di guardare con trasporto. Trasporto, sì. Eppure, anche in questa definizione (ho provato mentalmente a formulare periodi più convincenti ma l’amica geniale sfugge a qualsiasi catalogazione), c’è qualcosa di riduttivo. Forse trasporto non è il termine giusto, forse si dovrebbe parlare più precisamente di un vortice, di un turbine, di una specie di voragine in cui si sprofonda senza rendersi conto che ad ogni pagina si va sempre più giù. Giù dove non esistono più il rione, Napoli, Don Achille, i fratelli Solara, giù dove non ci sono più nemmeno Lila e Lenù, giù dove non ci sono la famiglia Cerullo e la famiglia Greco, dove non c’è Nino Sarratore, dove non c’è nemmeno la famiglia Airota. In quell’ipotetico “giù” esiste solo chi questa storia la sta leggendo e ha deciso, consapevolmente o no, di farsi del male.

 

Non esiste un modo per evitare che qualcosa dell’Amica geniale non ci resti addosso. No, purtroppo non esiste. Dico purtroppo, e lo dico in prima persona, perché se qualche lettore ha definito questa tetralogia una “piacevole droga”, io provo a spingermi oltre e a dire che è un piccolo punto di non ritorno. Non c’entra la vicenda in sé, non mi riferisco a ciò che viene narrato, alle lotte tra famiglie o alle vite di Lila e Lenù.

  

   

In ogni romanzo, con un andamento fintamente lento, si arriva ad una impercettibile resa dei conti. E i romanzi capaci di metterci di fronte alla resa dei conti – senza che il lettore l’abbia voluto né cercato – sono i romanzi più pericolosi, perché non c’è niente di più estenuante che soffrire – anche fisicamente, combattendo contro tanti piccoli aghi che si agitano nello stomaco – eppure godere di quella sofferenza; sapere, essere coscienti del fatto che forse è bene non andare oltre, perché al di là di quella soglia c’è solo la paura – la paura che abbiamo di guardarci dentro e di scoprire che forse non abbiamo navigato nella direzione giusta, o che magari l’abbiamo fatto ma lasciando dietro di noi una scia di malcontento impossibile da arginare –, e allo stesso tempo non riuscire a fermarsi, procedere come automi e sperare che il fiato non venga mai meno, che il respiro non ci abbandoni a metà percorso.

     

Come uno specchio rotto, attraverso cui guardo sforzandomi di ricomporre il mio riflesso, sono stata incapace di affezionarmi a quei personaggi, non sono riuscita a provare per nessuno di loro quell’empatia che, in modo del tutto naturale, scatta nel lettore quando ci si introduce nella storia. L’incapacità è data proprio da quei frammenti di vetro, sottili e taglienti, che mi restituiscono un volto frastagliato, segmentato, diviso. Mi penso intera e con la Ferrante mi riscopro a pezzi. Mi penso integra, e con le parole di Lenù mi riscopro multipla, di una pluralità che fa paura e che in qualche caso annienta, azzerando ogni convinzione. Perché tu credi di aver raggiunto un equilibrio, lo senti sotto i piedi, ci cammini ogni giorno sopra quel filo di certezze, senza renderti conto che è solo un filo, che se sposti il piede un po’ più in là cadi e ti fai male. Non muori, non morirai mai cadendo dal primo piano, non morirai per aver creduto di essere una e invece sei doppia, tripla, nessuna. Non morirai, ma ti farai molto male, e una parte di te si romperà, e quella parte che hai rotto – sì, sei stata tu a romperla, tu – farà pagare la pena al resto del corpo. Fermerà tutti, prima di risanarsi.

   

Sono io che, come Lenù, scompaio dietro la maschera della ragazza perbene, mi rimpicciolisco a furia di voler accontentare tutti quelli che si aspettano qualcosa da me e perdo il senso di me stessa? Sono io che, come Lenù, mi affanno perché il mondo si accorga della mia ombra eppure sento che alla fine tutti, tutti, si avvicinano, mi annusano, mi sorridono, mi fanno una carezza e poi se ne vanno? Sono io che non mi concentro a vivere, che non lascio tracce dietro di me ma solo una debole scia, inodore e incolore, perché sono concentrata a guardarmi dal di fuori e, per osmosi, tento di assorbire l’energia di una Lila qualsiasi, di un Nino Sarratore qualsiasi, di qualcuno che mi incoraggi e mi dica Ci sei, esisti, vai avanti? La Ferrante mi incatena – senza obblighi né imposizioni – a pensarmi senza filtri, mentre rivedo pezzi di me che galleggiano nelle pagine e non mi chino a raccoglierli, ora voglio vedere dove li porterà la marea.

 

Non ho avuto tempo di legarmi ad alcun personaggio, dicevo, anche perché ero troppo occupata a cercarmi negli angoli bui del rione, di una città che non conosco, che non ho mai vissuto e che pure mi perseguita. Una città che non ti lascia neanche quando te ne vai. Come un elastico che si allunga e si accorcia, Napoli ti fa allontanare e di colpo, con uno schiocco secco, ti riporta al punto di partenza. E allora ho capito che non ti salva nessuno dal posto in cui nasci, non ti salvi nemmeno da solo, e che quella cosa che chiamiamo destino, e a cui molti non credono, esiste ed è nella realtà dei fatti, oltre che nelle pagine dell’amica geniale. Perché la Ferrante, con la sua scrittura immediata, implacabile, appuntita, senza accogliere il lettore, senza prepararlo all’esperienza che lo attende, decide di scaraventarlo dentro ai propri incubi.

  

Non esiste una storia dell’amica geniale, non esistono neanche le storie dei personaggi. Esiste una storia soltanto in questa tetralogia, ed è la stessa storia che non vorresti mai raccontarti prima di andare a dormire. Perché è la tua.

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