Platone e Aristotele in un'opera di Luca della Robbia. Foto di Sailko

I filosofi sono dei gran bugiardi?

Alfonso Berardinelli

Tra realtà e verità c’è una gran differenza, anche se entrambe aspirano al primato. Un libro di François Noudelmann

Nella lotta fra te e il mondo, vedi di parteggiare per il mondo”, ha scritto Kafka. E Saul Bellow, una volta, ha detto che lui cerca la verità, ma quando la verità se ne accorge, scappa. In queste provocazioni, aforismi, o battute umoristiche in cui è facile riconoscere una tipica attitudine dello spirito ebraico (spirito nel duplice senso di humour e di intelligenza, di tradizione culturale e di aspirazione al bene) si sente subito una scossa energetica che risveglia nel pensiero la capacità di vedere le cose nel loro dinamismo e da punti di vista opposti, che minano l’identità ipnotica delle idee fisse.

  

Non sarebbe male se anche nel pensare i fatti politici si uscisse ogni tanto dalla logica agonistica della competizione frontale, identitaria, che vede davanti a sé semplicemente l’avversario da denigrare e da abbattere, dimenticando che in ogni posizione politica si esprime un aspetto, un volto, una parte percentuale della realtà plurima con cui, prima o poi, chiunque sarà costretto a fissare il proprio appuntamento. Tra volontà di prevalere e volontà di capire c’è e ci sarà sempre una distinzione, che spesso è un conflitto. Per vincere l’avversario politico bisogna capire qual è la fonte sociale della sua forza e perché quella forza è finita nelle mani di chi vogliamo combattere, scappando di mano a noi.

  

Torniamo alla verità e ai suoi complicati rapporti con la realtà. Fra realtà e verità c’è infatti una fondamentale differenza, nonostante sia l’una che l’altra aspirino a conquistarsi il primato. La verità sarà anche più essenziale, profonda, definitiva: ma è sempre una parte. La realtà è invece il tutto, con un solo e notevole svantaggio: che nel tutto c’è di tutto, il bene e il male, il vero ma anche il falso, la sincerità e la bugia. E’ questo un groviglio psico-intellettuale che riguarda la vita pubblica e quella privata, le nostre relazioni con gli altri, ma ancora prima con noi stessi. Anzi, fingere con se stessi evitando di arrivare a capirlo, è il male più difficile da combattere.

  

Ma sarà soltanto un male? O è invece la normalità inevitabile, necessaria a vivere e a tenere in piedi e in attività quello strumento pratico che è l’io? L’io è una costruzione ottenuta con l’uso dei più diversi materiali, che afferriamo qua e là nel tentativo di non essere sopraffatti da quello che ci succede. E un po’ di bugie è inevitabile che ci siano.

  

Si sarà capito che il problema non è solo morale, è psicologico e filosofico. Se ne è occupato, scrivendoci sopra un libro, il filosofo e critico francese François Noudelmann con il suo Il genio della menzogna. I filosofi sono dei gran bugiardi? (Raffaello Cortina, 249 pp., 21 euro). I francesi, quando si tratta di mettere insieme un intero libro su un’idea sola sono tanto efficienti e insuperabili quanto involontariamente noiosi. Quella sola idea viene senza dubbio sviluppata, metodicamente applicata, ma soprattutto ripetuta e rigirata da tutte le parti fino all’esaurimento (di chi legge). La patria dell’essai e dell’académie ha ormai scelto definitivamente l’académie, la quale esige volumi e non brillanti testi di dieci pagine. Nel libro si parla di Foucault, Sartre, De Beauvoir, Deleuze (come se la filosofia anglosassone non esistesse) e infine ovviamente di Kierkegaard e Nietzsche. Ma saltando qua e là un po’ di pagine, il libro si legge volentieri. Sale e pepe dei ragionamenti di Noudelmann sono nel suo proposito di smascherare, di andare a scovare la menzogna lì dove è occultata meglio, cioè fra gli specialisti della verità: i filosofi.

  

Non nascondo la mia consolidata convinzione secondo cui in filosofia mentire è molto facile, piuttosto elegante e infine tranquillamente accettato. E’ lo stesso linguaggio filosofico con la sua tendenza a diventare gergo, è il suo gioco con le generalizzazioni e le astrazioni concettuali passepartout a costituire quasi sempre un rispettatissimo apparato di copertura. Insomma che tipo di uomo c’è dietro le costruzioni e le verità filosofiche? La verità filosofica è una verità davvero universale e applicabile sempre nella stessa misura e nello stesso modo in tutte le circostanze? La verità intera e senza reticenze può essere espressa soltanto in parole e concetti? O non è, invece, la filosofia “un modo di vivere”, come ha detto e ripetuto Pierre Hadot nei suoi studi di filosofia antica e mostrando che la pratica di vita è stata al primo posto da Socrate in poi, stoici, epicurei, Medioevo, Rinascimento, fino a Goethe? Senza un essere umano che vive, pensa e agisce in un particolare modo e in particolari situazioni, il discorso filosofico sulla verità galleggia nel vuoto, si autofalsifica. Geniale è quell’anagramma medievale che rovescia la domanda di Pilato “Quid est veritas?” nella risposta di Gesù “Est vir qui adest”, è l’uomo che hai di fronte, che è qui presente. Benché la frase non sia attestata, mi sembra che siamo davvero nello spirito dei Vangeli: la verità non è un discorso, è una presenza umana, un’incarnazione. La verità non è in un sistema filosofico, è in una reale condizione umana. Per questo la filosofia dell’esistenza di Kierkegaard, scritta sotto vari pseudonimi e in forma di diario, è la più ispirata da Socrate e da Gesù. Cosa concludere? Dobbiamo considerare i filosofi accademici attuali una specie aggiornata di “scribi e farisei ipocriti”?

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