John Malkovich e Debra Winger in una scena del film "Il tè nel deserto" che Bernardo Bertolucci trasse nel 1990 dal romanzo "The Sheltering Sky" di Paul Bowles. In basso, lo scrittore americano

Paul Bowles, un tè con l'islam

Giulio Meotti

Lo scrittore di culto che ispirò Bertolucci e per primo capì l’incontro fra i “barbari musulmani” e il “maledetto occidente”

Ma se è tanto bravo, perché è così poco noto?”, si chiese Gore Vidal nel 1989, mentre era in lavorazione “Il tè nel deserto” di Bernardo Bertolucci con John Malkovich e Debra Winger. Quello “bravo” era Paul Bowles, di cui nel 2019 cadranno due anniversari: i vent’anni dalla morte e i settanta dalla pubblicazione del suo romanzo più celebre, “Il tè nel deserto” appunto, che racconta la coppia Kit e Port Moresby, che nel deserto africano cercano un luogo non rovinato dalla civiltà. Il film finisce con un cammeo di Bowles, finisce con gli occhi dello scrittore.

 

Fu un autore veramente leggendario in una ristretta nicchia, ma ignorato dal grande pubblico. “The Sheltering Sky”, uscito nel 1949 e da cui Bertolucci trasse quel film, circolò come un oggettino di culto per più di trent’anni, prima di trovare la fama che meritava grazie alla pellicola. “Con l’eccezione di uno o due libri di guerra, solo ‘The Sheltering Sky’ sembra avere l’impronta spirituale della storia nel mondo occidentale” scrisse Tennessee Williams sul New York Times. I Bowles, diceva Vidal, erano una coppia “famosa tra la gente famosa”. Tennessee Williams era andato a cercarlo ad Acapulco e W. H. Auden aveva diviso casa con lui a New York. Di formazione musicista (aveva studiato con Aaron Copland), Bowles aveva scelto la poesia, prontamente abbandonata quando Gertrud Stein a Parigi gli disse: “Non sei un poeta. Che ragione c’è di stare seduto ai caffè a parlare di letteratura, invece di creare qualcosa di tuo?”. Così Bowles lasciò il laboratorio culturale parigino che da James Joyce portava fino ad Ernest Hemingway per tornare alla musica e alle produzioni teatrali.

 

Amico di Gertrude Stein, Truman Capote, Orson Welles, si ritirò nel deserto marocchino, dove è scomparso nel 1999

Estraneo alle classificazioni di corrente – e tanto poco interessato alla promozione dei propri libri da non andare negli Stati Uniti nemmeno in occasione della loro uscita – Bowles è rimasto uno di quegli autori noti quasi esclusivamente ai letterati, troppo riservato, troppo ombroso, troppo anticonformista. Una volta indirizzò una sfilza di insulti al direttore della rivista marxista The Left, in cui definiva il suo periodico “un gesto alla moda, un ballo di beneficenza in onore di milioni di subnormali”.

 

Il New York Times lo definirà “il Samuel Beckett americano”. Nel 1931, l’allora compositore americano di ventuno anni visitò il Marocco su suggerimento di Gertrude Stein. Il suo compagno di viaggio era il suo insegnante di composizione, Aaron Copland. Affittarono una casa a Tangeri, quell’enclave in cui l’Europa si sovrapponeva all’Africa. Copland rimase sconvolto dal clamore dei tamburi durante la stagione dei matrimoni, e pensava che Tangeri fosse un “manicomio”, mentre Bowles ne rimase estasiato. “Quando ho ascoltato per la prima volta musica araba su dischi”, ha ricordato in seguito, “ho deciso di andare a vivere dove potrei essere circondato da suoni come quelli, perché sembrava che ci fosse ben poco altro da chiedere nella vita”. Nacque così il mito non soltanto dello scrittore di Long Island che divenne amico degli artisti più fiammeggianti del secolo, ma anche il mito della celebre coppia Paul e Jane Bowles, tutt’e due scrittori, tutt’e due omosessuali, innamorati della complicità, della singolarità e del rischio di quel matrimonio.

 

Contro l’idea “romantica e disastrosa” di un occidentale che si perde “in una cultura che è secoli indietro” 

 Della coppia romanzesca e cinematografica, è la moglie a sopravvivere, mentre nella realtà è stato Paul Bowles a sopravvivere a sua moglie, morta nel 1973, anche se ha detto a John Malkovich: “Da quel momento non mi è capitato più nulla, la vita non è più vita”. Andarono a trovarlo in tanti, da Jack Kerouac a Truman Capote passando per William Burroughs e Orson Welles e Jean Genet. Fu corteggiato come sceneggiatore da Luchino Visconti e lavorò anche con Leonard Bernstein. Le fotografie di Cecil Beaton ci raccontano uno scrittore tanto biondo quanto elegante. Il tema ossessivo di tutta la letteratura di Paul Bowles sarà il crollo dell’uomo civilizzato, “la fine della civiltà” dirà di lui Norman Mailer, in un ambiente primitivo e dove bohémien civilizzati si spingono nel deserto per consumare la propria autodistruzione. Bowles comprò una piccola casa nella medina di Tangeri, che divenne una sorta di avamposto dove le culture si mescolavano, dove l’Africa islamica si contaminava con l’occidente.

 

“Il mondo americano non si interessava molto al mondo musulmano” racconterà Bowles al Monde. “La sola cosa che appassiona i lettori americani sono i libri sul loro paese. Annunciai pubblicamente che non mi piacevano gli Stati Uniti e che non avevo più intenzione di viverci. Non me l’hanno mai perdonato”. La caratteristica di Bowles era di scrivere della società musulmana senza la solita pretenziosa condiscendenza degli occidentali. Al contrario, Bowles ha scritto di questo “vasto, luminoso, silenzioso paese” e del suo popolo stoico con profondo apprezzamento e ammirazione, e ha trovato nella loro capacità di sopravvivere alle avversità e alle crudeltà “qualcosa che è assoluto”, una forza d’animo che il mondo occidentale aveva definitivamente perso. La “maledetta civiltà occidentale”, come la chiamava. Quella civiltà che aveva adottato un nuovo culto, diceva. Il “gadgettismo”, il culto dei gadget. Bowles vedeva la fibra debole di un mondo spossato.

 

Bowles fu il primo grande scrittore occidentale contemporaneo a entrare in contatto, quasi in simbiosi, con il mondo islamico, con cinquant’anni di anticipo rispetto all’11 settembre. E la sua prognosi fu delle più pessimiste, fosche, sebbene sempre nutrita di marziale rispetto per l’islam. Al New York Times nel 1952, disse: “Non ho idee politiche, ma sono certo che non riusciremo a conoscere davvero i musulmani, e penso che se li conoscessimo davvero li troveremmo meno simpatici di come ce li propinano gli antropologi. Lo stesso vale per loro: apprezzano la nostra tecnica, ma non penso sia compatibile con la loro civiltà. La loro cultura è essenzialmente barbara, la loro mentalità è totalmente predatoria. Mi sembra che le loro aspirazioni politiche, pur comprensibili, siano assurde e che la loro realizzazione avrebbe effetti disastrosi sul resto del mondo”.

 

Vide l’occidente decadere in preda al “gadgettismo”. “Questo non è il momento di essere stupidamente felici”

Bowles vide il fondamentalismo islamico penetrare nel paese. “In una moschea in fondo alla strada un uomo prese il posto dell’imam… Ha elogiato l’Iran e Khomeini e ha detto ciò di cui il Marocco aveva bisogno. E quando ebbe finito, l’intera congregazione uscì, e procedette alla sommossa, e cominciò a combattere con la polizia, attaccando il negozio di liquori a Tangeri. Distrutto, davvero distrutto. Ma era di proprietà degli ebrei; questo lo rendeva doppiamente facile. Se avessero voluto distruggere i liquori, avrebbero potuto andare nel Minzah Hotel, in qualsiasi bar, ma non lo fecero; andarono al negozio di liquori ebraici. Ciò ha reso più forte, ovviamente, la loro protesta”. Fu Bowles a scoprire e a lanciare Mohammed Choukri, l’autore del “Pane nudo”, il Rushdie del mondo arabo, condannato dagli integralisti islamici. In una conversazione del 1997 a Tangeri con Philip Ramey, Bowles dirà: “L’islam è degenerato rispetto a quello che era mille anni fa”. Bowles aveva trovato nel mondo arabo la fine della civiltà occidentale, come un novello Joseph Conrad.

 

Nelle sue memorie “Though Without Stopping”, Bowles scrive così del suo attaccamento a Tangeri: “Se sono qui ora, è solo perché mi sono reso conto di quanto il mondo fosse peggiorato e che non volevo più viaggiare. Posso dire che Tangeri finora è stata toccata da un minor numero di aspetti negativi della civiltà contemporanea rispetto alla maggior parte delle città. C’è il tamburo là fuori quasi tutte le sere. Non mi sveglia mai; sento i tamburi e li incorporo nel mio sogno, come le grida notturne dei muezzin”. In Bowles, c’era ovunque la percezione di un declino. “Chi non è infelice, oggi, è un mostro, un santo, un idiota”. E ancora: “Mi chiedi cosa sia la decadenza. Io dovrei dire che nella letteratura non c’è nulla che sia decadente quanto l’incompetenza e il mercato. Se esalto le mille sfaccettature dell’infelicità è perché credo che dovremmo studiare con molta attenzione l’infelicità. Questo non è il momento di essere stupidamente felici, mettendo in ombra l’oscuro. Chi non è infelice, oggi, è un mostro, un santo, un idiota. Bisogna guardare l’universo mentre ti si sgretola sulla testa”.

 

“Siamo agli ultimi deboli bagliori, all’ultima falsa energia del moribondo”, scriveva dal suo autoesilio a Tangeri

 In una lettera, Bowles scrive: “Sono alla fine di una civiltà, una civiltà decaduta, agli ultimi deboli bagliori, per risorgere negli occhi di altre civiltà”. Vede i propri compagni di viaggio come “rappresentativi della morte imminente, l’ultima falsa energia del moribondo”. In una intervista a Rolling Stone, Bowles definì così il rapporto dell’islam con le donne: “L’islam insegna che le donne sono creature molto pericolose e se possibile devi stare lontano da loro. Non avere scambi con loro, tranne, naturalmente, la necessità di sposarsi e avere figli. Questa è l’unica ragione per cui dovresti andare vicino a una donna”.

 

Nella stessa intervista, lo scrittore attacca “l’europeo decadente che si sente in grado di affrontare la propria cultura e quindi immagina di poter far fronte a qualsiasi cultura, ma immagina erroneamente”. Definirà “roussoviana” l’idea che se un occidentale arriva in Marocco e si mette una djeballah, può sentirsi parte di quella cultura. “Non puoi identificarti con una cultura che è così tanti secoli indietro. Se tu fossi in grado di diventare parte di una cultura veramente arcaica, ciò implicherebbe qualcosa di sbagliato nell’organismo psichico, temo. Se un occidentale incontra una cultura arcaica con l’idea di imparare da esso, penso che possa avere successo. Ma perdersi non è un desiderio normale. Un desiderio romantico, sì, ma disastroso”.

  

Vide il “vizio” scomparire lentamente sotto il peso della religione islamica: “Dalla marijuana all’hashish, sono tutti sulla strada del falò del progressismo. I giovani fanatici dei quattro continenti ne sono furiosamente consapevoli. Non è possibile riunire una folla di fumatori: ogni uomo è solo e felice di rimanere così”. Laicissimo e libertino, Bowles diceva che “la cristianità è entrata nella sua fase degenerativa, uno stato di progressivo declino che raggiungerà il punto zero”. Per questo Richard Patteson, che dedicherà a Bowles una monografia, scriverà che l’autore del “Tè nel deserto” fu uno dei pochi letterati a capire che “il lungo declino della fede in tutto l’occidente cristiano e la crescente secolarizzazione della vita quasi ovunque avevano contribuito a una esposizione e nudità che trascende la politica”.

 

Parlando con la Paris Review nel 1981, Bowles affermerà: “Sono persuaso che in qualsiasi momento quella che chiamiamo civiltà occidentale, l’impalcatura su cui sono costruiti mille anni, può collassare”. Bowles, che parlava “le quattro lingue di Tangeri” (arabo, inglese, spagnolo e francese), fece ampio uso di personaggi che sembrano cercare di giustificare le loro azioni crudeli con invocazioni ad Allah.

 

In una scena terribilmente violenta di “The Delicate Prey”, il lettore incontra dei devoti musulmani violenti che “si impegnano in discussioni teologiche complicate” e poi pronunciano frasi come “con l’aiuto di Allah”. Un tema che Bowles porta all’esasperazione in “Un episodio remoto”, dove un rappresentante della civiltà e della cultura occidentale, docente di linguistica aperto e tollerante, viene catturato in Nord Africa da un gruppo di nomadi che gli tagliano la lingua e lo riducono a un farneticante oggetto di scherno e animale da circo.

 

Uno dei suoi personaggi, Mustapha, pensa alla “pace come a quell’interludio noioso e privo di significato fra le guerre”. In un’altra intervista, alla domanda se fosse possibile una relazione dell’occidente con il mondo arabo, Paul Bowles replicò: “No, è un concetto assurdo. È come aspettarsi che un masso spalanchi le ali e prenda il volo”. A Daniel Rondeau, giornalista e scrittore, che lo interrogava sulle forze che lo spingevano ancora a scrivere, Bowles diede una risposta enigmatica: “Perché sono ancora nel paese dei vivi”. L’occidente per lui se n’era andato da un pezzo.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.