Giangiorgio Pasqualotto, docente dell'Università di Padova (Immagini prese da Facebook)

Dalla deprimente Accademia al frainteso Zen, non resisterete a questo alfabeto

Alfonso Berardinelli

L’affascinante “Alfabeto filosofico” di Pasqualotto, che descrive un ambiente culturale in una forma molto prossima alla satira

Non mi è facile resistere al fascino di un Alfabeto filosofico come quello appena pubblicato da Giangiorgio Pasqualotto (Marsilio, 204 pagine, 12,50 euro): e non perché sia o aspiri a essere completo, esauriente, ma proprio perché è parziale e molto selettivo, rivelando quali sono i problemi filosofici che l’autore ritiene più importanti, urgenti, attuali e su cui ha da dire personalmente qualcosa. Se quell’alfabeto è selettivo, io a mia volta, invece che leggere la totalità del libro dalla prima all’ultima voce, ho intanto compiuto una mia prima selezione, una scelta istintiva alla ricerca delle connessioni possibili che nel libro mi attiravano di più. Ho cominciato con la voce Accademia.

 

Perché? Ma perché l’università è (lo è sempre stata) un po’ la mia bestia nera, un’istituzione in cui forse si studia, o si compiono i gesti dello studiare, ma non si pensa molto per personali necessità o passioni. Quanto poi alla discussione culturale fra colleghi, non se ne vede nemmeno l’ombra. Si parla regolarmente, fatuamente, astutamente di tutt’altro. Leggendo una tale voce mi sono congratulato quindi con me stesso perché è proprio qui, a proposito di Accademia, che Pasqualotto dice qualcosa che non mi è dispiaciuto sentire.

 

Dopo aver ricordato l’accademia ateniese di Platone e quella neoplatonica fiorentina fondata nel 1462 da Marsilio Ficino, Pasqualotto passa alle attuali “accademie” universitarie, nelle quali la filosofia si è trasformata in “materia” prevista “nell’organizzazione degli studi superiori”. E come è “ambientato” oggi questo studio della filosofia? Quali sarebbero le caratteristiche fondamentali di tali ambienti? Anzitutto l’essere ambienti poco adatti al pensare e al filosofare. Vi prevale e domina, spiega Pasqualotto, un intenso traffico burocraticamente e “mafiosamente” regolato sia nell’insegnamento e negli esami, nella “produzione di materiali pubblicabili” che, soprattutto, nella pratica dei concorsi e dei convegni: “incontri tra i vertici delle gerarchie accademiche a cui fanno capo le diverse discipline in cui è squartata la filosofia, al fine di stabilire tattiche e strategie da adottare per sistemare i propri ‘allievi’”.

 

Pasqualotto descrive questo ambiente filosofico in una forma molto prossima alla satira: ma si sa che oggi (forse più che in passato) satirica è la realtà stessa e per ottenere un effetto letterario grottesco è sufficiente raccontare esattamente le cose come stanno. Pare, per esempio, che un illustre ordinario, vantando il suo potere nei concorsi, sia stato capace di dire all’autore una frase come questa: “Tutti sarebbero capaci di mettere in cattedra un Kant, io potrei mettere in cattedra anche un bidello”. Se i concorsi servono a questo, meglio allora il metodo apparentemente del tutto arbitrario che vige nei paesi anglosassoni, dove è il capo o maestro a scegliere “senza controllo pubblico” chi sarà considerato degno di avere un posto. In questo caso, infatti, risulta immediatamente chiaro chi è il solo e diretto responsabile nell’aver preferito un imbecille servile a un candidato di valore.

 

Dalla deprimente voce Accademia sono poi passato alla voce Dialogo, grande invenzione socratica e platonica grazie alla quale la verità viene fatta nascere dai dialoganti con l’esame dialettico e reciprocamente critico di saperi acquisiti e di pregiudizi. Non si tratta di vincere o perdere nella discussione, quanto invece di demolire ogni falso sapere dei dialoganti con la loro partecipazione e il loro consenso. Qui mi sarei aspettato che Pasqualotto facesse il nome del mio maestro Guido Calogero, eccezionale studioso di logica greca nonché autore di un libro come Logo e dialogo. Per spiegare Socrate e il suo spirito critico-maieutico, viene invece fatto entrare in scena l’inaspettato personaggio del Maestro zen, che con i suoi paradossi smonta e neutralizza le certezze mentali e le corazze caratteriali dell’interlocutore portandolo a ripartire da zero, cioè da una libera e produttiva consapevolezza di non sapere.

 

Leggo dunque la voce Zen che conclude il libro. Pasqualotto infatti (leggo nella nota biobibliografica) ha insegnato all’Università di Padova non solo Estetica e Storia della filosofia ma anche Storia del pensiero buddhista. Che il buddhismo zen chiuda il volume non è dunque un caso alfabetico. Nello zen giapponese, sintesi tarda di precedenti tradizioni, si sono incontrate l’originario buddhismo indiano e il taoismo cinese, due mirabili saggezze piuttosto di moda ormai nell’occidente. La moda banalizza e deforma, ma il pensiero orientale è stato lungamente anche frainteso, osteggiato e denigrato da grandi filosofi europei, a partire da Hegel.

 

Di questo parla la voce Oriente, una delle più interessanti del libro nonostante la sua estrema sintesi. Le analogie e coincidenze fra oriente e occidente ci sono sempre state. L’oriente è stato logico e pragmatico non meno dell’occidente, nel quale d’altra parte un misticismo metodico e razionale non è stato affatto assente (da Pitagora a Simone Weil). Ma anche autori che potrebbero sembrare vicini all’oriente, per esempio Heidegger, arrivarono a negare che ci fosse mai stata una filosofia in India o in Cina. Disonesto come era, forse Heidegger ha solo voluto nascondere un debito con l’oriente troppo alto per essere riconosciuto senza imbarazzo.

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