La grande favola solitaria di Anna Maria Ortese

Giulia Ciarapica

Quella della Ortese è, tutto sommato, una grande favola solitaria, perché lei è fatta al cinquanta per cento di solitudine e al cinquanta per cento di dolorosa nostalgia

E’ scomparsa senza far rumore vent’anni fa, nel 1998. E’ considerata una delle più grandi scrittrici del XX secolo, ma oggi nessuno o quasi ne parla più. In pochi sono riusciti ad avvicinarla, a entrare in sintonia con la sua poetica: sfuggente, surreale, metafisica. Vinse il Premio Strega e fu insignita del Premio Viareggio. Scrisse opere di estrema bellezza ma di grande complessità, con una lingua tutta sua, una lingua simbolica, “rovesciata”, tesa a raccontare quella “seconda realtà” di cui il suo piccolo mondo era fatto. Stiamo parlando di Anna Maria Ortese, la grande incompresa e la più sola di tutti.

 

Quella della Ortese è, tutto sommato, una grande favola solitaria, perché lei è fatta al cinquanta per cento di solitudine e al cinquanta per cento di dolorosa nostalgia; tutta la sua vita ruota intorno alla sofferenza e al concetto stesso di dolore, un dolore sordo ma mai muto, che la scrittrice ha imparato fin da ragazzina a incanalare attraverso la penna. Nasce a Roma nel 1914, ma da piccola viene condotta a Potenza, che negli anni Venti del Novecento è uno dei luoghi più arretrati d’Italia; in seguito si trasferisce in Libia, quasi alle soglie del deserto, ed è lì che l’immaginario della giovane Anna Maria viene segnato per sempre dalle atmosfere calde e secche del Sud, da quei colori, dai profumi, dai silenzi naturali del deserto. Un deserto che già, metaforicamente, sembra avvolgere il destino dell’autrice e della donna Ortese. Nel bel mezzo di questo peregrinare da un luogo all’altro, fino all’approdo all’immensa, amata, odiata Napoli, Anna Maria perde il fratello Emanuele: lei stessa dirà che ha iniziato a scrivere per dare forma a questo dolore.

 

È dunque da qui, dal germoglio dell’angoscia, che nasce la sua scrittura, adoperata come fosse un farmaco, una cura, un modo per tentare di non restare sola con il primo grande trauma della sua vita. Così Anna Maria inizia il suo percorso, diventando complice di questo Male con cui si confronterà ripetutamente e al quale conferirà una voce unica e inimitabile: la sua è una condizione umana da esiliata, un’anima in pena che vive in una solitudine popolata di fantasmi, in perenne contatto col malessere del mondo. La sua estetica si fonda principalmente sulla non distinzione tra eventi e visioni, tra realtà e immagini oniriche, fiabesche, ed è così che il suo progetto di scrittura trae vigore dalle contaminazioni e dai reciproci scambi tra visibile e invisibile. «Fare possibile, anzi normale, semplice, l’impossibile», scrive la Ortese nel testo di presentazione della sua prima raccolta di racconti, “Angelici dolori”, allegato alla lettera indirizzata da Anna Maria a Bompiani il 7 aprile 1937. Esordisce in quell’anno, scoperta da Valentino Bompiani e segnalata da Massimo Bontempelli; ha il coraggio di intraprendere una strada tortuosa e difficile, perché Anna Maria vuole vivere di sola scrittura, una scommessa quasi disperata considerando gli introiti del mondo culturale e il fatto, per di più, di essere donna in mezzo ad un mondo di uomini. Ma lei saprà conquistarsi il suo piccolo indisturbato spazio vitale, fino a quando non pubblicherà nel 1953 “Il mare non bagna Napoli”: con questo libro la Ortese si inimicherà la città intera, rompendo definitivamente con Napoli e trasferendosi a Milano. Segue, dunque, un isolamento ancora più profondo, in cui il mondo dei suoi spettri, dei folletti e degli animali che lo abitano la sommergerà al punto da farla sentire al pari di una delle “piccole, insignificanti creature minori” da lei medesima create, come l’iguana che dà il titolo al romanzo del 1965. Anna Maria Ortese, da visionaria quale fu, credette sempre e solo all’invisibile; dietro la realtà, per lei, c’era quell’universo magico che noi rifiutiamo di vedere, l’universo delle creature maltrattate, oppresse, l’universo dei piccoli a cui lei sentiva di appartenere. La vocazione fantastica – che negli anni Trenta del Novecento ebbe un ruolo importante in letteratura, proponendosi come alternativa alle forme di ricerca verista e neorealista – è al centro della sua vena creativa ed è ciò che la costringe (in)consciamente alla perdita del sé.

 

La sua fu la solitudine profonda dell’animale condannato a rimanere chiuso nella propria stanza, soffocato dal suo stesso impeto, dal suo stesso ardore, da quella dicotomia tra la parte tenebrosa e la parte più tenera che contraddistingue l’eroe e poeta romantico; un lieve delirio che qualcuno ebbe a definire “l’infinita cecità di vivere”.

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