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I nuovi ciarlatani

Giulio Meotti

Le fregnacce delle riviste accademiche. L’algebra femminista, la fisica queer, la biologia afrocentrica e, ovviamente, il “pene concettuale”

Sono riusciti a dimostrare che l’imperatore è nudo, che buona parte della cultura accademica che esce dai prestigiosi journal studies non è altro che un pastiche in cui le parole egemonia ed epistemologia sono intercambiabili, dove le frontiere tra le discipline e le querelle ideologiche sono cadute e l’anti razionalismo contemporaneo si nutre delle fesserie del politicamente corretto. Nel 2017, Peter Boghossian e James Lindsay – il primo docente di Filosofia all’Università di Portland (Oregon), il secondo titolare di un dottorato in Matematica – spedirono alla rivista Cogent Social Sciences un loro “studio” in cui intendevano dimostrare che il pene non avrebbe dovuto essere considerato come un organo maschile della riproduzione, ma come una “costruzione sociale”.

 

In quel saggio, che i due autori avrebbero in seguito descritto come “un foglio di trecento parole di totali sciocchezze mediate attraverso la cultura universitaria”, facevano riferimento all’idea oggi in voga in certe facoltà che il pene è fonte di “una cultura dello stupro” e che aveva pure una responsabilità nel riscaldamento climatico. “Noi concludiamo che il pene è una costruzione sociale che danneggia le società e le generazioni future. Il pene concettuale presenta problemi significativi per l’identità di genere, è una fonte di abuso per le donne e altri gruppi di gender marginalizzati, è l’origine universale dello stupro e il motore di gran parte del cambiamento climatico. La letale ipermascolinità sostiene il materialismo neocapitalista, motore del cambiamento climatico, specialmente nell’uso massiccio di carburanti fossili e nel dominio di ambienti vergini”. La beffa riesce.

 

Iniziano con il “pene come costruzione sociale”, poi venti beffe accademiche. I tre che hanno messo in ginocchio le università

Così, Boghossian e Lindsay decidono di andare avanti con l’aiuto di Helen Pluckrose, caporedattrice della rivista Areo. Lo scorso 2 ottobre, i tre rivelano al mondo in un lungo articolo che sono arrivati in dieci mesi a “piazzare” venti bidoni in alcune delle riviste accademiche più importanti. Uno di questi saggi “dimostra” la cultura dello stupro tra i cani.

 

Lo studio viene pubblicato dalla rivista Gender, Place & Culture e uno dei suoi editor scrive in merito: “E’ un articolo meraviglioso, incredibilmente innovatore, ricco di analisi ed estremamente ben scritto e organizzato”. In un altro bidone, comparso su Sexuality & Culture, i tre incoraggiano gli uomini eterosessuali ad introdursi dei dildo (peni finti) nell’ano per “far calare la propria omofobia”. Uno degli editor della rivista lo definisce “un contributo incredibilmente ricco ed appassionante sullo studio della sessualità e della cultura, e in particolare l’intersezione tra mascolinità e analità”. Un altro articolo, pubblicato sulla rivista Sex Roles, verte sulla “etnografia della mascolinità Breastaurant: la conquista sessuale in un ristorante sessualmente oggettivante”.

 

“C’è qualche idea così stravagante che non sarà pubblicata?”, tuitta lo psicologo e studioso Steven Pinker. Yascha Mounk, uno scienziato politico di Harvard, commenta che “quello che i tre hanno mostrato è che certe riviste e forse in una certa misura certi campi, non possono distinguere tra una seria cultura e una burla intellettuale ridicola”. L’assurdità dei saggi è stata notata per la prima volta dall’account Twitter noto come @RealPeerReview, che da anni denuncia una vasta gamma di borse di studio e di saggi spazzatura. Quando il Wall Street Journal e altri iniziano ad annusare la beffa, i tre burloni decidono di venire alla luce. La confessione di Boghossian, Lindsay e Pluckrose termina con un appello “alle maggiori università perchè comincino a fare meticolosi esami di questi ambiti di studio in modo da separare gli specialisti e le discipline che producono sapere da quelli che producono del sofismo costruttivista”. In breve, fare scienza, non fregnacce.

 

Ma non ci sono soltanto le beffe. Gli originali non sono da meno. Un saggio ha proposto la nascita della “glaceologia femminista”

L’esperimento dei tre ora travolge tutto il mondo degli studi culturali, degli studi sull’identità di genere e della teoria critica. Ogni saggio-beffa doveva contenere “un po’ di follia o di depravazione”. E’ difficile scegliere il preferito. Sulla rivista di proprietà di Taylor & Francis, una illustre casa editrice britannica, ci si chiede: “I cani subiscono l’oppressione basata sul genere (percepito)?”. Un altro articolo, pubblicato su Fat Studies (“una rivista interdisciplinare di peso corporeo e società”, anch’essa della Taylor & Francis) si propone di “superare l’antropometria attraverso il bodybuilding grasso”. Un altro saggio riscrive il Mein Kampf di Hitler “usando il linguaggio della teoria dell’intersectionality”. Il saggio è esaminato e accettato da una rivista di gender studies. La rivista filosofica femminista Ipatia accetta un saggio in cui i tre sostengono che i militanti della giustizia sociale dovrebbero essere liberi di punire i loro avversari come ritengono più opportuno. Lo stesso saggio propone di censurare o silenziare gli “studenti privilegiati” che dovrebbero invece condurre “esperienze di riparazione”, tra cui indossare delle catene o essere costantemente interrogati.

 

Solo pochi anni fa, la cosiddetta “teoria queer” occupava un posticino ai margini della rispettabilità accademica. Oggi è uno dei feudi accademici più alla moda nelle discipline umanistiche, l’occasione per una miriade di classi, conferenze, articoli, riviste e libri. Harvard, Stanford, Duke, Columbia e l’Università della California a Berkeley, solo per citarne alcune, hanno riviste che propalano queste imposture. E in quasi tutte queste università, i corsi di “cultura occidentale” sono stati soppiantati dai “corsi di diversità” e chi più ne ha più ne metta: “Gender, Race, Ethnicity, Disability and Sexuality Studies”. C’è una theory, meglio se French, per ogni capo di accusa: neoliberismo, popoli oppressi, razzismo, colonialismo, imperialismo, omofobia, classismo, costruzionismo, umanismo, multiculturalismo, guerra del canone, decostruzione. Da qui ai tre burloni è venuta l’idea di mettere in mutande l’industria accademica.

 

“Perché lo abbiamo fatto?”, scrivono i tre. “Perché siamo razzisti, sessisti, bigotti, misogini, omofobi, transfobici, transisterici, antropocentrici, problematici, privilegiati, prepotenti, di estrema destra, maschi bianchi cisetero (e una femmina bianca che stava dimostrando la sua misoginia interiorizzata e la sua schiacciante necessità di approvazione maschile) che volevano riabilitare il bigottismo, preservare i nostri privilegi e prendere la difesa dell’odio?”. No. I tre non sono dei conservatori; sono degli auto proclamati “liberali di sinistra” che hanno a cuore l’onestà intellettuale, il che rende il loro verdetto sulla decadenza delle riviste accademiche ancora più schiacciante.

Un saggio propone di censurare e mettere a tacere gli “studenti privilegiati”, facendo loro indossare delle catene

 

Non è la prima burla del genere. Nel 1997 il fisico Alan Sokal compì una prima beffa storica, presentando a una rivista di ermeneutica, Social Text, il salotto bene della cultura accademica (postmoderna) americana, un saggio volutamente infarcito di fesserie agghindate in filosofese. Sokal e altri ne dedussero che la filosofia, o almeno certa filosofia contemporanea, è un’impresa di “impostori intellettuali”, nascondendosi spesso dietro a un linguaggio parascientifico per dare lustro alle loro idiozie. Il titolo stesso di Sokal, “Oltrepassando i confini: verso una ermeneutica trasformativa della gravità quantistica”, avrebbe dovuto far sorgere più di un sospetto. Due mesi dopo, su un’altra rivista, Lingua Franca, Sokal spiega l’esperimento: “Il mio articolo su ‘Social Text’ è generosamente condito di assurdità, è ricco di strafalcioni di matematica e di fisica ‘voluti’ e di affermazioni che qualsiasi ricercatore considererebbe ridicole, ed è quindi servito a saggiare il tasso di rigore e di serietà della comunità accademica di cui la rivista in questione è espressione”.

 

Uno scherzo inteso a dimostrare la vuotezza del postmodernismo e di ritenere che sia stato pubblicato solo perché “suonava interessante” e “blandiva i preconcetti ideologici degli editori”. Sostenendo di appartenere anch’egli alla “sinistra”, Sokal lamenta che una certa sinistra americana ha tradito gli ideali progressisti legandosi a quello che egli ha definito “relativismo epistemico”; in altri termini, che rinuncia a distinguere il falso dal vero e getta discredito sulla scienza (Sokal un tempo insegnava matematica in Nicaragua durante il regime sandinista e le sue credenziali ovviamente resero la sua burla ancora più imbarazzante per la sinistra accademica). Alla beffa, Sokal fece seguire “Imposture intellettuali”, un libro scritto con Jean Bricmont, in cui attaccava la “manifesta ciarlataneria” della cultura accademica.

 

Due anni fa c’è stata una nuova beffa. Anouk Barberousse, professoressa di Filosofia della scienza alla Sorbona, e Philippe Huneman, direttore di ricerca al Cnrs, burlano la neonata rivista Badiou Studies, una pubblicazione scientifica interamente dedicata al pensiero di Alain Badiou. Il numero preso di mira è incentrato su “Badiou e il femminismo”. Piatto ricco mi ci ficco. Dopo aver inventato l’identità di “Benedetta Tripodi”, dottoranda dell’università di Iasi (Romania), i due burloni hanno sottoposto alla rivista il saggio “Ontology, Neutrality and the Strive for (non) Being Queer”. Esce nel primo fascicolo del 2016. Gli autori attaccano la teoria degli insiemi come una “istituzione reazionaria”. Trentuno pagine di assurdità accettate come una seria ricerca accademica.

 

Nel 1997 Sokal, un docente di sinistra, riuscì a beffare il salottino della cultura postmoderna. “Sono dei ciarlatani”

Ma non ci sono soltanto le beffe. Gli “originali” non sono da meno. Gran parte delle riviste umanistiche in America e altrove sono guidate dalla “teoria critica” e sono piene di un gergo che invita a rovesciare tutta la tradizione occidentale. Come scrisse Andrew Ross su The Nation al tempo di Sokal, “preparatevi per un’altra stagione di aneddoti asinini sull’algebra femminista, la fisica quantistica queer e la biologia molecolare afrocentrica”. L’International Journal on Nursing Studies ha pubblicato un saggio sul fatto che “l’eterosessualità fallocentrica è privilegiata e il contesto socio politico della disparità di potere di genere è largamente escluso”.

 

Un’altra rivista si domanda se la nuova passione per lo yogurt greco non sia da spiegare col fatto che è “bianco” e rappresenta quindi una forma di inconscio suprematismo razziale. Sulla rivista Progress in Human Geography è uscito un saggio dal titolo “Ghiacciai, gender e scienza”, in cui è auspicata la nascita di una “glaceologia femminista”, perché negli studi sul climate change c’è troppo strapotere maschile. La rivista canadese Subjectivity è uscita con un saggio sulle “esperienze sessuali con le persone obese”.

 

La rivista Cultural Geography sostiene che i supermercati sono avamposti della “conoscenza imperiale”, mentre il Journal of Gender Studies pubblica articoli sul “miglioramento dell’erezione maschile come proiezione della mascolinità”. L’elenco di queste pagliacciate intellettuali è sterminato. Ora, come nota il Wall Street Journal, è probabile che l’imbroglio comporterà la scomunica accademica dei tre studiosi. Boghossian non ha cattedre e si aspetta che l’università lo licenzi o lo punisca in altro modo. La Pluckrose prevede che avrà difficoltà a farsi accettare un programma di dottorato. Lindsay ha detto che si aspetta di diventare “un paria accademico”, escluso da cattedre o pubblicazioni. Puoi pubblicare tutte le zozzerie che vuoi, ma mai beffare i colleghi. Anche perché, come hanno scritto i tre, “sette articoli pubblicati in sette anni è spesso considerato il numero sufficiente per ottenere una cattedra”. Per fare tendenza. E per trasformare la cultura occidentale in una barzelletta.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.